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La sentenza di assoluzione di Vojislav Šešelj non contribuisce alla distensioni delle relazioni tra Croazia e Serbia, rendendo più difficile superare ciò che è accaduto negli anni '90

06/04/2016 -  Francesca Rolandi Fiume

C'è stato un momento in cui sembrava che le relazioni tra Croazia e Serbia volgessero verso uno sviluppo positivo e che si facessero passi in avanti verso la costruzione di relazioni di buon vicinato. Era il 2010 e a capo dei due paesi c'erano rispettivamente Ivo Josipović e Boris Tadić, due politici che rappresentavano storie alternative rispetto all'escalation nazionalista degli anni '90.

Quei tempi però oggi appaiono lontani e ogni frizione sembra tornare buona a una parte della classe politica di entrambi i paesi per provocare un innalzamento delle tensioni. Dal momento che ogni sassolino gettato nello stagno provoca tanto fragore, molti si chiedono quale sarà l'effetto di quel macigno rappresentato dalla sentenza di assoluzione di Vojislav Šešelj da parte del Tribunale dell'Aja. Per il leader del Partito radicale serbo erano stati richiesti nove capi di imputazione, tra cui crimini di guerra e crimini contro l'umanità.

In Croazia l'assoluzione di Šešelj è stata accolta con rabbia e amarezza da tutto l'arco politico, a cominciare dal premier Orešković, che l'ha definita un passo indietro per la giustizia internazionale. È diffusa nel paese l'opinione che la decisione del Tribunale dell'Aja rispecchi una volontà europea di salvare gli eredi di Šešelj, Aleksandar Vučić e Tomislav Nikolić, oggi al potere in Serbia e accettati a pieno titolo nella comunità internazionale, come afferma il giornalista Branko Mijić su Novi List.

Il fattore Šešelj

L'assoluzione di Šešelj è stata criticata anche dal Consiglio nazionale serbo – organo della minoranza in Croazia – con a capo Milorad Pupovac, che ha paragonato il Tribunale dell'Aja a un negozio prima della chiusura in cui la giustizia sarebbe in svendita, auspicando una presa di responsabilità da parte dei paesi della regione per cercare di tamponare le conseguenze negative che una tale mancata condanna potrebbe portare.

Che l'intenzione di Šešelj sia di dedicare i suoi ultimi mesi di vita a far precipitare le relazioni tra  Serbia e Croazia è apparso chiaro fin dalla sua scarcerazione, avvenuta nel novembre 2014 per “motivi umanitari” collegati al suo stato di salute – è malato di cancro al fegato in stato di metastasi.

Già appena liberato era entrato a gamba tesa nella campagna elettorale delle elezioni presidenziali in Croazia, intervenendo telefonicamente allo show televisivo del conduttore ultranazionalista croato Velimir Bujanec per esprimersi a favore del presidente uscente Ivo Josipović, una dichiarazione che gettava una macchia di filo-serbismo su quest'ultimo. E le sue intrusioni erano proseguite con le patetiche offerte di prestazioni sessuali che l'ex leader dei radicali ha più volte indirizzato alla presidente croata Kolinda Grabar Kitarović, che aveva richiesto fin dall'inizio del suo mandato il suo ritorno immediato all'Aja, appellandosi al rispetto delle vittime. “Kolinda, preparati, sto arrivando”, ha twittato Šešelj a poche ore dalla sua assoluzione.

La minoranza serba di Croazia

Ma al di là di scambi poco edificanti, il clima di tensione ha avuto anche conseguenze concrete. Il 18 marzo la Croazia ha bloccato la Serbia al capitolo 23 dei suoi negoziati d'accesso all'Unione europea ponendo tre condizioni a Belgrado: maggiori diritti alle minoranze e una loro maggiore partecipazione ai lavori parlamentari; la risoluzione della questione dell'Aja con l'invio di Šešelj al tribunale il giorno della sentenza; la rinuncia alla competenza sui crimini di guerra compiuti in altri paesi.

Se da una parte la questione della collaborazione con il Tribunale dell'Aja ha a lungo rallentato il percorso di avvicinamento della Croazia all'Unione europea, dall'altra è ormai diventata un luogo comune l'idea che proprio l'ingresso nell'Unione europea avrebbe segnato per Zagabria l'inizio di un trend negativo rispetto ai diritti. Da almeno un paio di anni si parla sempre più in Croazia della posizione delle minoranze con particolare riferimento a quella serba, la più grande e la più discriminata.

Anche in questo caso sono esistiti rapporti migliori in passato, in particolare quelli del governo di Ivo Sanader e di Jadranka Kosor che avevano visto toni di collaborazione con il partito maggioritario serbo SDSS. Trattandosi in entrambi i casi di esecutivi di centro-destra a guida HDZ, questa politica distensiva aveva tolto terreno proprio al settore politico che tradizionalmente cova maggiori sentimenti sciovinisti.

Il primo segnale di un inasprimento dello scontro sono state nell'autunno 2013 le proteste scoppiate a Vukovar contro l'introduzione di targhe bilingui in alfabeto latino e cirillico, istituzionalizzate nel 2015 dalla decisione del consiglio municipale di emendare lo statuto per non inserire targhe bilingui. Se le proteste hanno scaldato gli animi in una città dal forte impatto emotivo come Vukovar, hanno probabilmente mostrato, quasi ce ne fosse bisogno, alla classe politica e in particolare all'HDZ quanto la carta anti-serba paghi ancora.

Il 2015 è stato anche il ventennale dell'Operazione Tempesta, la cui eco si è fatta sentire in un clima vittorioso in cui ogni voce critica è stata attaccata o messa ai margini. All'inizio dell'autunno l'esordio della Croazia come tappa della rotta balcanica, in seguito alla chiusura della frontiera ungherese, era stato segnato da una guerra confinaria con la Serbia, che era durata alcuni giorni e aveva creato lunghissime colonne di camion.

Atmosfera di intolleranza

L'insediamento del nuovo governo nato dall'alleanza HDZ-Most all'inizio del 2016 avrebbe secondo molti contribuito a incentivare tale atmosfera di intolleranza. Non aiuta il fatto che tra i nuovi incaricati vi siano personalità contraddittorie. Il viceministro del Turismo Robert Pauletić in un editoriale di alcuni anni fa si era fatto vanto di avere abbandonato un hotel sull'isola di Pag perché c'erano numerosi turisti serbi. Un altro nuovo nominato, Nikola Mažar, questa volta all'ufficio per la Ricostruzione e il mantenimento degli immobili, si era fatto conoscere al grande pubblico nazionale nel 2013, quando era consigliere nella municipalità di Vukovar e, alla testa di un gruppo di cittadini, aveva cercato di bloccare il corteo con le autorità di governo in protesta contro le nuove targhe in cirillico.

Nel febbraio 2016 Milorad Pupovac, il presidente del Consiglio nazionale serbo, ha indirizzato una lettera all'Ufficio della presidenza in cui denunciava di essere stato spesso minacciato per strada come non gli era capitato neppure negli anni '90 e sottolineava i messaggi di odio delle settimane precedenti contro diversi generi di minoranze, ricordando anche il linciaggio di cui sono state vittime una serie di personalità, dal direttore del Teatro nazionale di Fiume Oliver Frljić alla direttrice dell'agenzia per i media elettronici Mirjana Rakić al metropolita Porfirije.

La presidente si è detta d'accordo sull'atmosfera di diffusa intolleranza, ma anziché considerarla un prodotto del nuovo governo, ha paventato l'idea che tra le personalità menzionate da Pupovac ce ne fossero alcune che “provocano, irritano e offendono la maggior parte del pubblico croato, mostrano in modo non veritiero e addirittura deridono la Guerra patriottica e, in sostanza, negano la realtà, e l'idea stessa dello stato croato, creando così un'atmosfera di tensione, esclusione e intolleranza”.

Quindi, ad avere la responsabilità per l'innalzamento del livello di scontro, secondo la prima carica dello stato, sarebbe chi con le proprie prese di posizione pubbliche si oppone a una visione unilaterale del passato croato, innalzata a narrazione ufficiale, non tanto chi la violenza la esercita.

Alla lettera di Pupovac è seguita la risposta del numero due dell'HDZ Milijan Brkić che gli ha mandato a dire di andarsene dove non si sente minacciato. Una dichiarazione infelice che ha richiamato quella, precedente di alcuni mesi, di Ruža Tomašić, che ha ventilato la possibilità che la Croazia “pulisca il suo giardino” rimandando i serbi in Serbia.

Esiste in alcuni settori dell'opinione pubblica croata, a un quarto di secolo dall'indipendenza, l'idea che la comunità serba, 186.633 persone secondo l'ultimo censimento, ovvero il 4,4% della popolazione croata, sia un corpo estraneo da ostracizzare e minacciare di espulsione verso quella che sarebbe la loro “madrepatria”.

E l'ostracizzazione colpisce anche alcuni personaggi, come lo scrittore Vladan Desnica, serbo zaratino, che furono un ponte tra le due culture. Di recente le autorità municipali  di Zara hanno rimosso una targa a lui intitolata sulla sua casa natale, adducendo questioni burocratiche.

Secondo diversi media questa atmosfera si sarebbe riflessa su alcuni atti di violenza avvenuti negli ultimi mesi e per i quali si è parlato di “aggressioni a sfondo etnico”: il pestaggio di un giovane serbo a Pakrac e quello di un giovane croato a Vukovar, entrambi avvenuti nel mese di febbraio e l'incendio di un bar di proprietà serba nei dintorni di Obrovac, nell'entroterra zaratino, nel mese di marzo.

Quanto gli equilibri interni e quanto quelli nella regione influiscano sulle relazioni tra la Serbia e la Croazia da una parte, e tra la comunità serba e la società croata dall'altra, è difficile da determinare. Tuttavia pare che proprio l'espressione “regione” sarà estromessa dal linguaggio della diplomazia su insistenza del nuovo ministro degli Esteri Miro Kovač che vi vede un riferimento troppo forte all'area della ex Jugoslavia, in favore di “vicinato” che implicherebbe una separazione all'origine.