Il Donbass express attraversa le vaste pianure orientali dell'Ucraina. Anche qui, come a Donetsk, si parla solo russo. La seconda puntata del reportage che ci accompagna attraverso l'Ucraina: dai suoi confini orientali a quelli occidentali
Il cordone di poliziotti in tenuta antisommossa circonda il palazzo della regione a Donetsk. Le finestre al piano terra sono state chiuse con lamiere saldate alla meno peggio. Ma non c’è tensione, non oggi. La piazza antistante è sgombra, il corteo si è spostato verso la stazione. Si è sparsa la voce di un treno da Kiev pieno di attivisti di Euromaidan. I poliziotti, in piedi dietro i loro scudi di ferro, scherzano tra di loro e con me, si fanno fotografare come a una gita. Uno di loro mi dice che ha la famiglia in Italia, vicino Ortona, e mi offre di farmi fotografare in mezzo a loro con l’elmetto e lo scudo.
Lungo la piazza passa una ragazza coi tacchi alti, partono alcuni fischi, la compagine scoppia in una fragorosa risata. Insomma, tutto fuorché tensione. Ma non bisogna lasciarsi ingannare, perché è qui che nei giorni scorsi si sono verificati violenti scontri, con feriti e colpi sparati da tutte le parti.
Un ordine strillato da un ufficiale fa staccare alcune decine di poliziotti dal cordone e li fa salire di corsa sulle camionette. “Alla stazione, si stanno ammassando alla stazione”. E via di corsa.
Il treno per Kiev parte tra un’ora, ma l’ingresso della stazione è bloccato. La folla grida “Russia, Russia” e la milizia presidia l’entrata e i binari. Alcuni passeggeri sono inferociti. “Benvenuto in Ucraina”, dice Andrej scuotendo la testa “questo è un paese di merda, ecco”. Andrej deve prendere anche lui un treno, vorrebbe andare in Crimea da suo fratello. Sventola il biglietto che ha in mano, ma non è possibile passare il cordone. Gli dico che, in fondo, se c’è una manifestazione non è colpa delle ferrovie e il paese non c’entra niente. “E che c’è da venire a far casino qui in stazione? Perché non se ne rimangono a protestare in piazza? Dovrebbero arrestarli tutti, così imparerebbero”. I pericolosi fascisti da Kiev non arrivano, la tensione si allenta e tutti se ne tornano a casa, manifestanti, poliziotti e passeggeri rimasti a terra.
Il Donbass express attraversa le vaste pianure orientali. Fuori dal finestrino scorrono isbe di legno e impianti industriali arrugginiti, stazioncine di campagna e campi di grano. Anche a bordo del treno è solo russa la lingua che si sente parlare. Lo scompartimento di seconda classe è per quattro persone, ma noi siamo in tre. A Donetsk sono saliti insieme a me Sergej e sua moglie Irena, vanno alle terme di Mirgorod, la città nel centro dell’Ucraina resa famosa dai racconti di Gogol’. “Dovresti vedere che pace lì, e che acqua buona”.
Sergej è russo mentre sua moglie Irena è ucraina. “Ma è solo scritto sul passaporto, non vuol dire molto. Tutti e due parliamo russo, e tutti e due siamo ortodossi. Siamo tutti e due russi, di fatto”. Sergej dipinge in poche parole il mosaico ucraino e non ci va molto lontano. La definizione di filorussi che spesso frettolosamente la stampa affibbia a una parte della popolazione – in contrapposizione alla componente ucraina – non spiega molto e cela una varietà di gradazioni. Ci sono cittadini russi che vivono in Ucraina (come i militari della flotta del Mar Nero in Crimea) e cittadini ucraini di etnia russa, nati cioè in Ucraina da genitori russi o in Russia prima della caduta dell’Urss, come Sergej. Poi ci sono i russofoni, che possono essere tanto di etnia russa quanto ucraina, come Irena. E poi ci sono gli ucrainofoni, che possono avere anche del sangue russo nelle vene. Ma quella linguistica è solo una delle possibili divisioni.
Il bouquet culturale ucraino è seminato nel paese senza un ordine netto, e lo si vede scorrere da questo treno. Se però è vero che la sfumatura più marcata la si percepisce viaggiando da est a ovest, come sto facendo io, è anche nelle differenze tra le città e le campagne, o tra le classi più o meno abbienti, così come tra i giovani e i vecchi che si sgretolano le certezze.
“La storia. È lì la risposta”, dice Sergej. “Quando è nata l’Ucraina? Semplice: mai. Non è mai esistita l’Ucraina prima della fine dell’Urss. Al di qua del Dnipro è sempre stata Russia. Dall’altra parte ungheresi, polacchi, ebrei. Leopoli, dove stai andando tu e dove dicono ci sia la culla della cultura ucraina, l’hanno fatta i polacchi. La verità è che l’Ucraina non esiste. Non è mai esistita”.
Irena intanto si è interessata alla conversazione ed è scesa dalla cuccetta superiore. “Hai visto quello che hanno combinato a Kiev?”. Le dico che ero lì in quei giorni, quando sono morte 103 persone. “Ecco, tutti adesso parlano di questo martiri, li chiamano i ‘Cento del paradiso’. Ma chi dice niente dei poliziotti che hanno perso la vita mentre facevano solo il loro dovere? Bruciati vivi, nelle macchine incendiate con le molotov. Noi non vogliamo vivere così, con la violenza. Noi chiediamo solo di vivere secondo la nostra cultura e le nostre tradizioni. E non è giusto che vengano dall’Europa o dall’America a dirci come vivere. Che penseresti tu se noi venissimo in Italia a darvi delle regole?”
Secondo Sergej e Irena il discorso è lo stesso per tutta l’Ucraina orientale, proprio come per la Crimea. “Vorremmo fare un referendum anche noi, ma non ce lo permettono, perché la costituzione lo vieta. In Crimea hanno potuto farlo solo grazie alla Russia e all’esercito. E hai visto il risultato?”.
Ma io ho una domanda che mi arrovella da tempo, se la volontà popolare era così chiara per tutti, che paura c’era ad aspettare? Che bisogno c’è stato di anticipare il referendum di oltre un mese da fine maggio e organizzarlo in una decina di giorni? “Te lo dico io cosa sarebbe successo”, dice Sergej. “Se avessero aspettato ancora un po’ ora staremmo combattendo una guerra civile”.
A Poltava due nuovi passeggeri saliti mi fanno capire che ho sbagliato compartimento. La provodnitsa (la responsabile della carrozza) ha già sparso la voce della mia presenza in tutto il vagone così, quando arrivo nel compartimento giusto, Lena e Anton sanno già tutto. Lei è una donna dal sorriso gioviale che va a trovare la figlia a Kiev, lui è un ragazzo taciturno sui diciott’anni che non ho capito bene dove stia andando. E poi a Poltava è salito anche Oleg, un giovanotto un po’ in carne che fa l’informatico.
Lena mi domanda a bruciapelo se mi è piaciuta Donetsk. Dico che è una città moderna, con grandi palazzi, ma non è proprio il mio genere. Dico che Leopoli è probabilmente più il mio tipo di città, ma anche Kiev. “Sì, certo Maidan Nezaležnosti era bella prima che i teppisti la distruggessero. Me la ricordo bene, con la statua della Bereginia sulla colonna bianca. E adesso è tutta nera, bruciata. E l’albero di natale, lo hanno imbrattato. Gli hanno appeso una grande foto di Julija Tymošenko. Vorrebbero fare lo stesso anche nelle nostre città, a Donetsk”. Le dico che ho assistito alle manifestazioni in favore della Russia e di Janukovič. Al nome dell’ex presidente fa una smorfia. “Lasciamo perdere Januk, ormai è andato. Bisogna guardare avanti, fermare i fascisti e cercare l’aiuto della Russia”.
Oleg ci osserva e non vede l’ora di essere chiamato in causa. Quando chiedo anche a lui che ne pensa, è un fiume in piena. “Bisogna conoscerlo questo paese per capirlo, e la stampa straniera dice un sacco di bugie. L’Ucraina è sempre stata divisa in due, le chiamiamo ‘le due rive’ perché in mezzo scorre il Dnipro. Est e ovest, non c’è niente da fare, siamo diversi. Una cosa sola ci unisce: i politici ladri. Hanno mandato il paese alla bancarotta, è arrivato davvero il momento di liberarcene”.
Calo l’asso e chiedo se hanno visitato la Mežygirja, la lussuosa residenza di Janukovič. Anton, che era stato in silenzio fino a quel momento, tira fuori l’ipad e mostra delle foto di una villa lussuosissima, neoclassica e un po’ kitsch. “Ecco, questa è invece la villa della Tymošenko. È grande più del doppio della Mežygirja”. Non so se sia vero, ma questa “gara a chi è più corrotto” è un leitmotiv che si sente ripetere in continuazione, e riassume il sentimento di un popolo assuefatto e stanco. Poi Anton passa a mostrarmi delle foto di Donetsk, per dimostrarmi che io devo essermi perso gli scorci più belli per pensarla a quella maniera: una fontana in una parco, aiuole fiorite, lo stadio, dei grattacieli; e poi una notturna con uno skyline puntellato di luci che sembra Manhattan e una scritta che dice: “Tutti dicono Usa, Usa – ma io sto bene qui a casa”.
Dal finestrino comincia a materializzarsi l’estrema periferia di Kiev, con le sue baracche e i nuovi condomini colorati. Il Donbass express sferraglia su un ponte a cantilever, eccolo sotto di noi scorrere il Dnipro, il fiume che unisce e separa l’Ucraina.
(continua)