Una riflessione, amara e sofferta, ma lontana da sentimenti nostalgici, sull'89 e sui trent'anni trascorsi dalla caduta del Muro di Berlino
All’epoca della caduta del Muro di Berlino vivevo in Jugoslavia, in una piccola città della Bosnia. Quel 9 novembre 1989 suonò il telefono e quando alzai la cornetta sentii la voce di un mio amico. “Sai cosa sta accadendo?”, mi chiese. Non feci nemmeno in tempo a rispondere che egli proseguì. “Accendi la televisione, il Muro sta cadendo!” “Solo un muro?”, gli chiesi scherzoso. Ogni tanto racconto questo aneddoto – che appartiene ad un altro tempo e ad un altro luogo – durante le presentazioni dei miei libri in Italia, suscitando talvolta conversazioni, seppur brevi. Me ne ricordo alcune.
“La caduta del Muro preannunciò la dissoluzione della Jugoslavia?”. “Questo bisognerebbe chiederlo ai distruttori della Jugoslavia, quelli interni ed esterni, nonché ai suoi falsi salvatori”.
Sono trascorsi trent’anni da quel giorno in cui scherzai sulla caduta del Muro. Potete stare tranquilli, non scriverò in questa sede della costruzione di quel mostro, diventato principale simbolo della Guerra fredda, né di quanto fosse alto, lungo e largo, e tanto meno scriverò di Walter Ulbricht che lo ideò, né di Nikita Chruščëv che lo fece cadere, né dei libri, reportage, fotografie e film dedicati al Muro… Di documenti su questo argomento ce ne sono tanti – potete leggerli e guardarli finché volete. Ma su una cosa devo soffermarmi: non riesco a dimenticare quel momento in cui dalle macerie del Muro, nel bel mezzo della festa con fuochi d’artificio, i leader politici europei ci promisero un’Europa migliore e più bella. In realtà, si riferivano all’intero mondo, sostenendo che sarebbe diventato più giusto.
Il fatto che queste promesse siano rimaste disattese suscita qualche preoccupazione in tutti quelli che si rifiutano di bere l’acqua del fiume Lete. A dire il vero, sono meno preoccupati quelli che sanno che fin dai tempi antichi la menzogna e la politica spesso vanno di pari passo; si preoccupa di più invece chi non è cieco di fronte ai muri di filo spinato contro i migranti e chi non è sordo di fronte alla verità, e la verità è che questi muri non sono solo muri ungheresi, sloveni, bulgari… sono i nostri muri, muri europei. E quando cadranno questi muri?
Già che parliamo di preoccupazioni, oggi, a distanza di trent’anni dalla caduta del Muro, la nostra preoccupazione dovrebbe essere ancora più forte e grande. Quando dico nostra mi riferisco a tutti noi che siamo nati in ex Jugoslavia, ma anche a quelli più giovani che provengono dai paesi sorti dalle ceneri della Jugoslavia.
Primo, con la sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia abbiamo dato un ottimo esempio a tutte quelle forze retrograde che sostengono che ogni società multiculturale sia destinata al fallimento e che rappresenti un pericolo. Secondo, la maggior parte delle persone provenienti dall’ex Jugoslavia, dove si giurava di rispettare il principio di fratellanza e unità, ha rigettato il sistema socialista costruito sulla base dell’ideologia comunista per abbracciare il nazionalismo, un’ideologia dei perdenti inconsapevoli di ciò che stanno perdendo. Terzo, se a Tito e ai comunisti viene rimproverato di aver preso le distanze dall’Europa (ovvero dal capitalismo, dall’economia di mercato, etc.), allora che dire di quegli “uomini nuovi” che hanno approfittato della transizione dal comunismo alla democrazia per svendere i beni pubblici alle aziende straniere e ai tycoon locali, e per trarre vantaggi personali.
Se togliamo la polvere dell’oblio dal passato, ci ricorderemo come le banche e fabbriche venissero vendute ad un euro. Ci ricorderemo sicuramente anche di quei “benefattori” locali che durante gli anni Novanta, ma anche dopo, intenzionalmente portarono queste banche e fabbriche alla rovina e a una svalutazione totale. Ma questa situazione è ormai irrimediabile e solo gli scrittori e sceneggiatori ne traggono spunto per le loro opere.
Qualche tempo fa, un uomo proveniente dall’ex Jugoslavia – fedele a Dio, Patria e Famiglia – si domandava meravigliato come fosse potuto accadere uno scandalo come quello di Agrokor. “E perché non sarebbe potuto accadere?”, gli dissi. Se era necessario che crollasse la Jugoslavia affinché venisse creato Agrokor, diventato simbolo di tante altre aziende simili e di una transizione infinita dal socialismo al capitalismo (selvaggio), e affinché i pochi potessero arricchirsi ai danni dei milioni di cittadini ridotti alla povertà, non resta che citare il vecchio Krleža che diceva che ogni cosa è peritura tranne la stupidità. Occorre però interrogarsi su come si fosse disgregata la Jugoslavia e quanti morti, invalidi, ex prigionieri dei campi di concentramento, sfollati, orfani e vedove avesse lasciato dietro di sé.
Ah quanto è ampio e profondo il registro della nostra Vergogna!
Quell’uomo mi guardò a lungo, potete facilmente immaginare in che modo. Mi disse che ero pessimista e che lui aveva menzionato la vicenda di Agrokor solo en passant. Quando raccontai questo episodio ad un mio amico che vive in America, egli rimase sorpreso dal fatto che io avessi lasciato che quell’uomo mi portasse sul suo terreno. Mi chiese di non raccontargli di nuovo del mio metodo che consiste nello sperimentare tutto sulla propria pelle, un metodo molto efficace di percezione e osservazione della realtà. Mi disse anche che ero stato fortunato ad aver avuto quella discussione in Italia. Se per caso quello “scambio di opinioni” avesse avuto luogo lì, sarebbe andata ben diversamente! Lì nella democrazia postjugoslava. Lì dove i dissidi tra serbi, croati, bosniaci e montenegrini non accennano a placarsi, perché vengono alimentati in continuazione. Lì dove i nazionalisti di tutti i colori si accusano a vicenda, ma non possono far a meno gli uni degli altri.
Potrei andare avanti ancora a lungo a elencare i problemi sorti negli ultimi trent’anni… ne emergerebbe una lunga lista in cui troverebbero posto anche l’America, la Russia, la Turchia, e di certo anche la Bruxelles della nostra cara Mogherini. Ma questa volta non parlerò di loro, loro sono arrivati dopo, come Fortebraccio che è arrivato a Elsinore quanto tutto era ormai finito.
Anche i ricordi pesano sull’interpretazione di tutto ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni. Quando qualcuno mi chiede cosa non riesco a dimenticare, di solito rimango in silenzio. (Una volta ho risposto a un curioso interlocutore sconosciuto chiedendogli se ci fossero altri argomenti, più allegri di cui parlare). Anche oggi, a trent’anni dalla caduta del Muro, non so da dove cominciare. Da certi fenomeni che vanno assolutamente condannati, come il revisionismo storico, o la tendenza a giustificare e glorificare quelli che durante la Seconda guerra mondiale si schierarono dalla parte sbagliata? Da quelli che sono ancora vivi o da quelli che sono morti?
Tra i vivi ricordo i volti delle persone che nel periodo immediatamente precedente l’inizio dell’Epoca dei cambiamenti si tolsero gli abiti rossi per indossare quelli neri, ma anche tutti quei volti buoni, seppur confusi. Non ho mai dimenticato – come avrei potuto? – la mia esperienza come membro di un movimento pacifista che era attivo in quella cittadina della Bosnia dove vivevo e lavoravo prima della guerra.
Quell’esperienza mi fece capire quanto fossero numerosi non solo quelli che erano contro la guerra, ma anche, purtroppo, quelli che erano favorevoli alla guerra. Questi ultimi erano troppo numerosi. Dopo una nostra protesta, alla quale parteciparono circa 10mila persone, un uomo politico che era al potere all’epoca ci inviò un messaggio semplice, affermando: “Noi possiamo portare in piazza un numero di persone tre volte maggiore”. Usò il verbo più adeguato: portare. Quelli che usano le parole con troppa leggerezza spesso dimenticano che il verbo portare viene usato anche in riferimento agli animali: portare le pecore al pascolo, portare a spasso gli asini, etc. Da allora sono trascorsi 27 anni, i miei sono perlopiù emigrati, vivono nella cosiddetta diaspora, mentre i loro governano nei paesi dell’ex Jugoslavia, si dividono il potere politico e diffondono la propria influenza anche nell’ambito economico e culturale. Governano ormai da molto tempo. Senza alcun progetto per il futuro. Pardon, hanno un progetto, un progetto per riempire le proprie tasche e quelle dei loro complici.
Loro governano e i giovani se ne vanno all’estero.
L’ex Jugoslavia si sta svuotando. Non solo le repubbliche ex jugoslave che aspettano ancora di entrare nell’Unione europea, ma anche quelle che sono già membri dell’Unione. Respingo a priori ogni eventuale critica secondo cui questo testo sarebbe un lamento. È vero, ci si può anche lamentare, o piangere di fronte ai fatti, ma tutti sappiamo che è meglio agire. Non ditemi nemmeno che sto scrivendo tutto questo perché provo nostalgia per qualcosa che non c’è più e che, come sostengono alcuni, era solo una grande illusione! Scrivo, ma non sono preso dalla nostalgia.
E quegli altri volti?
Tra i tanti volti buoni non posso dimenticare quello di una madre di un bambino di tre anni morto durante la guerra in Bosnia, che avevo incontrato dopo la guerra al cimitero nella mia città natale. Un piccolo cubo di marmo e su di esso inciso il nome del bambino, che la madre aveva chiamato con il nome di un personaggio di un romanzo di Turgenev. La data di morte: un anno di guerra. Ci sono momenti in cui la terra e il cielo sembrano ammutolire e ogni nuvola sembra trasformarsi in un perché destinato a rimanere senza risposta.
Conoscevo un ragazzo di nome M. Frequentava il liceo in quella città bosniaca dove io ero venuto per insegnare. Giocava a pallacanestro, la sua ragazza era una mia alunna. Rimase gravemente ferito sul fronte, morì nella prima estate di guerra. I suoi commilitoni si ricordano che ripeteva: “Non voglio morire…”.
Quindi, tutto è negativo? Ci sono solo i nuovi Muri e i loro riflessi? Certo che no, i corifei del nazionalismo non sono riusciti nel loro intento di schiacciare ogni differenza a favore di un appiattimento ideologico. Non sono riusciti a soffocare le voci dissenzienti, né a scoraggiare le attività di gruppi e individui che si oppongono al nazionalismo e la collaborazione tra gruppi etnici diversi. A dire il vero, sono molto più abili nell’intrattenere rapporti di collaborazione con la criminalità organizzata e con diversi tycoon. Sono felice ogni volta che sento parlare di uno spettacolo teatrale, un film, un romanzo o una mostra dedicata al tema della resistenza a quella versione della realtà che i vincitori cercano di imporci. E soprattutto quando leggo le reazioni positive che queste attività culturali suscitano in altri paesi. Sì, mi sento felice, anche se ritengo che le vie della cultura e dell’arte siano lunghe e che le vie di una politica e un’economia frettolosa di solito portino a conseguenze catastrofiche. Mi piacerebbe tanto citare almeno alcuni dei nomi dalla mia lunga lista dell’opposizione culturale dalle Caravanche a Ohrid, ma non vorrei offendere quelli che magari ho tralasciato. Chiedo perdono a tutti quelli che lottano con le loro penne, videocamere, musica, colori!
Purtroppo hanno vinto loro, i nazionalisti. (Non voglio nemmeno immaginare cosa potrebbe accadere se i nazionalisti dovessero vincere anche in altre parti d’Europa.) Ma non hanno vinto solo i nazionalisti, hanno vinto anche quelli che hanno saputo adeguarsi al modello della pseudopolitica e della sottocultura imposto dai nazionalisti. Ciononostante, voglio credere che la loro vittoria, pur essendo duratura e patriottica, non sia l’atto finale dello scontro tra noi e loro. Voglio credere ancora e ancora – anche se so che non ci sarò più quando verrà quel momento (“sono nel fiore degli anni”) – che la vittoria del nazionalismo e del neoliberismo lì, nei Balcani, sia segno di una profonda crisi che, per niente paradossalmente, potrebbe diventare un’occasione per innescare cambiamenti radicali. Voglio credere, nonostante tutte le mie delusioni, che almeno in Europa ci sia ancora una maggioranza decisa a lottare contro il nazionalismo e il razzismo. Voglio crederci anche se vedo che molti si rifiutano di imparare dall’esempio balcanico. “Noi siamo diversi”, quante volte l’ho sentito dire nel paese del mio esilio.
Per concludere, nessuna lezione, solo un’osservazione: non saremo mai diversi se non ci rendiamo conto che il nazionalismo è la principale arma di autodistruzione di ogni società. Di ciò non dovrebbe dubitare nessun cittadino europeo che crede nella Ragione, nella Memoria e nel Bene.