Pixabay - CC0 Creative Commons

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Nel Caucaso del Sud vicende diverse hanno portato nel corso dell'anno a nuovi capi di governo. Nel caso della Georgia si è ormai vicini anche alle elezioni presidenziali

17/07/2018 -  Marilisa Lorusso

Il Caucaso del Sud è una regione particolare: il conflitto armeno-azero per il controllo del Nagorno Karabakh impedisce sinergie ed integrazione regionale. Un confine chiuso che è uno iato perpendicolare nell’area e che blocca non solo persone e merci, ma anche le influenze e gli effetti contagio. Quello che accade in un paese difficilmente si propaga al vicino, come accade invece nelle zone dove vige una più intensa interazione. Eppure, curiosamente, fra aprile e giugno del 2018 i paesi del Caucaso del Sud hanno tutti e tre cambiato i primi ministri.

Ha cominciato ad aprile l’Azerbaijan, dove si è dimesso Artur Rasizadə. Classe 1935, Rasizadə fu primo ministro di fiducia di Heydar Aliyev dal 1996 al 2003, e dopo la sua morte e l’elezione alla presidenza del figlio Ilham Aliyev, ricoprì nuovamente il ruolo di capo di gabinetto dal novembre 2003 appunto all’aprile 2018, quando è stato sostituito da Novruz Mammadov. Poi è toccato all'Armenia, dove la rivoluzione di velluto ha portato al rovesciamento di quello che sarebbe stato il terzo governo di Serzh Sargsyan: una prima esperienza tra il 2007 e il 2008 come primo ministro, poi due legislature guidate come presidente e un tentativo durato poco, dopo una riforma costituzionale, di ritornare al potere come primo ministro. A maggio gli è succeduto Nikol Pashinyan, dopo giorni in cui l'Armenia è stata attraversata da proteste e manifestazioni di piazza.

Se in Azerbaijan il primo ministro azero - ritiratosi in tarda età - ha ceduto lo scettro a un altro rappresentante della maggioranza, il primo ministro armeno, delegittimato dalla piazza, ha dovuto invece cedere il passo al cambiamento. A giugno il terzo paese sudcaucasico, la Georgia, ha riassunto in qualche modo entrambi gli scenari.

Il 2018 georgiano: l’ultimo atto del presidenzialismo

Il cambio del primo ministro in Armenia e in Georgia ha un peso diverso che in Azerbaijan, dove vige un presidenzialismo spinto: le due repubbliche stanno infatti dirigendosi verso il parlamentarismo, per cui il peso politico del presidente è decisamente ridotto rispetto a quello del capo di gabinetto. La transizione è però complessa e lenta. In Georgia dopo lunga negoziazione a ottobre si terranno le ultime presidenziali ad elezione diretta, ultimo lascito del presidenzialismo georgiano prima che la riforma costituzionale voluta dal governo in carica, traghetti il paese verso il parlamentarismo puro, con elezione indiretta del capo dello Stato.

Questo appuntamento elettorale ha messo in movimento le forze politiche del paese. E’ rientrato in campo dalle retrovie Bidzina Ivanishvili, l’eminenza grigia di Sogno Georgiano, il partito maggioritario nel paese, che è tornato ad essere il segretario del partito. La sua ridiscesa nell’arena politica può significare sia la volontà di ri-infondere carisma al partito, già al secondo mandato di legislatura (la prima dal 2012 al 2016, la seconda avviatasi nel 2016), sia una sua possibile candidatura alla presidenza. Ivanishvili aveva lasciato la vita politica attiva dichiarando di aver completato il proprio scopo e raggiunto i risultati promessi. ma i cittadini non sembrano pensarla allo stesso modo: il consenso verso il Sogno Georgiano è andato scemando, e quanto sia profondo il malessere dell’elettorato lo hanno rivelato le piazze in questi ultimi mesi.

Il 2018 delle piazze georgiane

Come la teoria del battito d’ali di farfalla che crea un uragano altrove: in Georgia episodi scollegati e non affini sono confluiti in una articolata fase di proteste che ha portato alle dimissioni del primo ministro, allo scioglimento del governo e a una sostituzione gestita all’interno della maggioranza.

Tutto è iniziato nel dicembre 2017, in via Khorava a Tbilisi, dove due gruppi di minorenni si sono scontrati tra loro. La rissa si è estesa a parenti e amici e sul selciato rimasero due sedicenni accoltellati, David Saralidze e Levan Daduashvili. Lo stesso mese le Forze Speciali compirono un’operazione anti-terrorismo nella valle del Pankisi durante la quale è rimasto ucciso il diciannovenne Tamerlan Machalikashvili. A maggio un’altra operazione, questa volta anti-droga, ha scatenato la reazione dei giovani cittadini di Tbilisi, oltraggiati dal modus operandi della polizia che aveva fatto irruzione in alcuni club della capitale con metodi duramente repressivi. Da maggio le strade di Tbilisi hanno cominciato a riempirsi di dimostranti: la cosiddetta Rave Revolution . Ma il picco doveva ancora arrivare, e lo avrebbe scatenato una sentenza.

Il 31 maggio 2018 il processo per gli omicidi Saralidze-Daduashvili ha portato alla condanna a 10 anni di un imputato per l’omicidio di Daduashvili, e di un altro imputato a 9 anni per il tentato omicidio di Saralidze. Gli altri imputati – di cui si vociferava avessero protezioni in procura – sono stati assolti.

Le proteste per i due episodi avvenuti a dicembre - l'uccisione a Tbilisi di David Saralidze e quella nella valle del Pankisi di Tamerlan Machalikashvili - sono confluiti in un unico movimento guidato dal padre di una delle due vittime. Zaza Saralidze è insorto contro la sentenza, raccogliendo intorno a sé una folla numerosa cui si è unito anche Malkhaz Machalikashvili, padre di Tamerlan. I padri che chiedevano giustizia hanno animato una grande sollevazione popolare contro un sistema che ancora non garantisce pari diritti a tutti. La critica è stata rivolta da subito contro l’ufficio del Procuratore, uno dei corpi dello Stato che meno è risultato permeabile alla depoliticizzazione e alla riforma degli apparati dello stato. E non a caso la prima testa a cadere è stata quella del procuratore generale, che ha rassegnato le sue dimissioni .

La prima risposta delle istituzioni non è bastata però alla piazza. Si era da poco spenta la eco della Rave Revolution, che Tbilisi era ancora bloccata. Il 4 giugno il primo ministro Giorgi Kvirikashvili si è incontrato con Saralidze promettendogli giustizia. La protesta è continuata però fino ad uno sgombero forzato, avvenuto l’11 giugno scorso. Il 13 giugno Kvirikashvili ha dovuto però arrendersi rassegnando le sue dimissioni .

Il consenso, il partito, le elezioni

Ormai troppo impopolare e quindi sacrificabile, il partito ha scaricato Kvirikashvili cercando di non accollarsi il mese di proteste che hanno portato al pettine diversi nodi. Ufficialmente il primo ministro si è dimesso per contrasti sulla linea economica voluta dal Segretario di Sogno Georgiano, Ivanishvili. Salvo poi che primo ministro è divenuto Mamuka Bakhtadze , precedente ministro delle Finanze.

Sogno Georgiano con questo rimpasto tenta di arrivare all’appuntamento delle elezioni presidenziali di ottobre con una nuova faccia, sgravandosi del fardello di dissenso che ha accumulato, rimettendo in pista pesi massimi come Ivanishvili e rispedendo nelle retrovie chi si ritiene possa causare una emorragia di voti.