Una recente pubblicazione ripercorre la storia e le contraddizioni dell'occupazione italiana della Jugoslavia, tra il 1941 e il 1943. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Attaccata dalle truppe tedesche (soprattutto) ed italiane, nell’aprile del 1941 la fragile Jugoslavia monarchica dei Karadjordević capitola e viene rapidamente smembrata. All’Italia arrivano in dote il Montenegro, la Dalmazia, la Slovenia meridionale, il Kosovo e qualcosa della Macedonia; inoltre nasce, con tutela ed ispirazione fasciste, lo Stato degli ustascia croati (l’NDH) guidati da Ante Pavelić.
Il potere italiano che vi si insedia mescola la forte presenza dei militari (si arriverà a ben 300 mila unità, venti divisioni), i diplomatici di Ciano, gli interessi dei gruppi industriali e finanziari nonché il protagonismo dei Savoia, che hanno pur sempre una regina che viene dal Montenegro. In più c’è da fare i conti con la complessità etnica e perfino antropologica dei Balcani: l’invasione dell’Asse scoperchia infatti un vaso di Pandora fatto di nazionalismi, di violenze etniche e di persecuzioni – soprattutto tra serbi, croati e musulmani - in cui è difficile muoversi e soprattutto capire.
Gli italiani cercano di barcamenarsi con la solita politica del divide et impera ed all’impiego dei collaborazionisti, raggruppati nella Milizia volontaria anticomunista (Mvac). Ma ricorrono anche alla spietatezza della repressione, che mette assai in crisi lo stereotipo del buon soldato italiano. Tanto è vero che fucilazioni, deportazioni (solo il campo sull’isola di Rab/Arbe ospiterà 10 mila prigionieri) e saccheggi daranno agli italiani l’immagine ben poco nobile di incendiari di case (palikući) e di rubagalline. Anche se, a dire il vero, l’atteggiamento verso gli ebrei sarà invece spesso benevolente, arrivando addirittura ad azioni di salvataggio.
A complicare il tutto c’è, a cavallo tra il 1941 ed il 1942, lo scoppio della sanguinosa guerra civile, che opporrà i partigiani di Tito alle forze collaborazioniste, tra cui, di fatto, vi sono i cetnici filomonarchici. Gli italiani diventano, paradossalmente, “alleati del nemico”, secondo la formula con cui l’autore titola efficacemente il libro. Alleati cioè dei cetnici serbi contro gli ustascia ormai sotto influenza tedesca. Una situazione surreale che vede il vojvoda dei cetnici Mihailović collaboratore degli italiani ma al tempo stesso ministro della guerra del governo jugoslavo in esilio a Londra, un governo formalmente in conflitto con l’Italia. Per di più da parte dei generali italiani gioca un vero e proprio pregiudizio anti croato e, viceversa, una sorta di ammirazione verso serbi e montenegrini. Che sono visti come guerrieri leali mentre i primi vengono giudicati “untuosi e falsi”.
Ad accentuare la confusione – o la schizofrenia – dei sentimenti italiani vi è anche una crescente ammirazione del movimento partigiano titoista a cui l’autore dedica due paragrafi proprio per sottolinearne la presa ideale e la modernità internazionalistica ed insieme patriottica che sa proporre. Tanto è vero che in diverse unità italiane si attivano contatti con i partigiani, contatti che poi al crollo dell’8 settembre produrranno la totale collaborazione militare con questi ultimi.
Alla metà del 1943 la presenza italiana è ormai in disfacimento e priva di prospettive. In soli due anni l’occupazione di un’area che voleva essere lo sbocco ideale dell’espansionismo nazionalista italiano si era “balcanizzata” sprofondando nella confusione, nell’impotenza e nello scoramento. Oltre a perdere 15 mila uomini tra caduti e dispersi.
La sconfitta dei cetnici, indeboliti dalla loro ambiguità oltre che dalla caduta dell’alleato italiano, toglierà ogni alternativa politica alla Jugoslavia che nasce dalle lotte partigiane. Che sarà repubblicana, federale e socialista. Ma questa è già un’altra storia.
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