Intervento finale di Giulio Marcon a Padova, al convegno nell'ambito di Civitas 2001.
I contributi che abbiamo ascoltato hanno messo in evidenza come i Balcani siano ancora una ferita aperta, come ancora dopo 10 anni di conflitti ci siano molti punti interrogativi, molte incertezze. Le prospettive di sviluppo, di democratizzazione devono essere ancora sviluppate e ulteriormente consolidate. Non bisogna però cadere nel pessimismo, perché anche nei Balcani la società civile ha fatto passi molto significativi: anche in queste aree le forze democratiche antinazionaliste hanno vinto e hanno affermato anche a livello di governo la loro presenza. Le leadership nazionaliste che sono state responsabili di queste guerre non sono più al potere nei Paesi che furono interessati da questi conflitti. Si afferma così una speranza che questo lento, faticoso, ma inevitabile processo di rafforzamento democratico possa svilupparsi ancora di più e porre delle basi solide per il futuro di questi Paesi.
Le importanti testimonianze di questa sera dimostrano che in queste aree c'erano e ci sono punti di vista, esperienze, elaborazioni, proposte che, negli anni Novanta, avrebbero dovuto essere sostenute con più forza dalla Comunità Internazionale e dai governi. Ci sono state forze e posizioni che non sono state ascoltate e sostenute e che invece molti di noi (ong, forze della cultura, società civile) hanno cercato di sostenere e aiutare.
Noi come Consorzio Italiano di Solidarietà abbiamo cercato di praticare quella ingerenza umanitaria dal basso caratterizzata da una diplomazia dal basso, una diplomazia popolare. Un errore di fondo commesso in questi anni dalla Comunità Internazionale è stato quello di avere verso questi Paesi "in transizione" - che uscivano cioè dal processo avviato con la caduta del muro di Berlino - un approccio estemporaneo. Si aveva l'impressione che la Comunità Internazionale suddividesse questa zona d'Europa in spazi diversi: coloro che andavano integrati erano separati da coloro che dovevano essere lasciati al loro destino. Se l'Europa avesse avuto un atteggiamento coerente, il Patto di Stabilità sarebbe stato promosso nel '89, non nel '99. E senza creare discriminazioni, si avrebbe cercato di favorire la soluzione di quei conflitti che inevitabilmente sarebbero emersi con un approccio integrato, che cioè guardava a questi Paesi come parte integrante dell'Europa. Il progetto della costruzione di una "casa comune europea" è stato progressivamente abbandonato.
Occorreva invece creare politiche di integrazione economica attraverso la salvaguardia di un processo graduale di transizione economica, un'integrazione istituzionale basata sulle compatibilità democratiche e di rispetto dei diritti umani, e infine un'integrazione e un confronto di carattere culturale attraverso scambi tra i popoli e le comunità. Il nazionalismo si radica nelle culture che rimangono chiuse, alle quali non viene data la possibilità di aprirsi e stabilire relazioni con gli altri. Ci siamo chiesti perché l'Europa non propone, come ha fatto per gli studenti universitari dell'Unione Europea, una sorte di progetto Erasmus per i giovani dell'Europa, inclusi quelli che vengono dall'area balcanica. Un meccanismo di circolazione che favorisca gli scambi, l'integrazione, il contatto, la conoscenza reciproca è il modo migliore per sconfiggere, a partire dalle giovani generazioni, la cultura nazionalistica. La stessa cosa vale per la difesa delle minoranze e dei diritti umani: nel Patto di Stabilità il tema dell'asilo, fondamentale, non è stato inserito nel primo tavolo - quello relativo alla difesa dei diritti umani - ma nel terzo, che affronta il tema della sicurezza, intesa anche come coordinamento delle forze di polizia, come fosse un tema di ordine pubblico.
L'Europa deve attrezzarsi in modo diverso. L'obiettivo è la sicurezza, la pace: è importante costruire la pace e condizioni effettive di uno sviluppo pacifico di questi territori (convivenza, giustizia, rispetto dei diritti umani). Occorrono però politiche concrete, di sostegno allo "sviluppo umano". Queste guerre hanno distrutto soprattutto il senso di appartenenza alla stessa comunità. Se poi il Patto di Stabilità raccoglie i soldi riservando il 90% al tentativo di ripresa economica e produttiva e destinando solo le briciole allo sviluppo umano e alla ricostruzione democratica di quei Paesi, come si può pensare di porre su basi solide la pace in quelle aree?
Serve quindi un intervento diverso e nuovo, puntando molto in questa direzione anche con investimenti concreti. Bisogna finalizzare bene l'aiuto, che deve essere un meccanismo per permettere uno sviluppo economico autocentrato, per consentire l'autogoverno delle comunità, per promuovere la crescita delle società civile. Quest'ultima è il vero antidoto contro il ritorno della guerra e della violenza.
Noi proponiamo che da questa conferenza parta un appello, che abbia una dimensione europea e che sia rivolto ai responsabili delle associazioni internazionali, perché ci sia una ripresa e uno slancio dell'intervento in questa direzione. Non vogliamo che questi popoli siano abbandonati al loro destino di "relativa sicurezza". Finita la costruzione dell'Europa delle finanze, occorre costruire l'Europa della pace e della convivenza, ma non senza i Balcani. Finché i Balcani non faranno parte integralmente dell'Europa, questo sogno non si potrà avverare. Dobbiamo avere la visione di un futuro comune, che abbia nelle parole della democrazia, dei diritti umani, della convivenza i suoi punti fondamentali.