Prima la "congiura del silenzio", poi la memoria utilizzata come clava. Uno sguardo al confine orientale grazie alla recensione di "E allora le foibe?" di Eric Gobetti
(Pubblicati originariamente su www.michelenardelli.it )
Per anni ho cercato di affrontare la tragedia che si è consumata nel corso del Novecento in quell'incrocio particolare di storie, culture, popolazioni che è – a seconda degli sguardi – il confine nord orientale, oppure quello nord occidentale, l'Alto Adriatico, la soglia dei Balcani o il limes fra latinità, slavismo e mondo tedesco, rifuggendo da letture manichee e nazionaliste.
E bene fa Eric Gobetti nel suo “E allora le foibe” uscito nelle scorse settimane a proporre come incipit del suo lavoro la necessità di rivedere i concetti che sin qui sono prevalsi nella lettura di quegli avvenimenti (e più in generale nella vecchia geografia politica), a cominciare da quello di “stato-nazione” rivelatosi tanto perverso da segnare tragicamente il secolo che così disinvoltamente quanto sbrigativamente ci siamo messi alle spalle.
Soprattutto per chi ha avuto in sorte di nascere lungo quel limes, è difficile prescindere da quell'intreccio (o meglio sarebbe dire da quell'ingorgo) identitario, fra improbabili radici nazionali, anagrafi storpiate, toponomastiche piegate al volere del potere di turno, appartenenze e narrazioni ossessive.
Nella mia terzietà, ho cercato di non eludere il conflitto, parlandone senza cadere nella vulgata spesso retorica delle parti, gettando ponti quasi sempre non voluti e poco apprezzati, iscrivendo gli avvenimenti nel contesto storico e geopolitico in cui si è consumata questa complessa vicenda, dando credito per quanto possibile alla verità dei fatti e riconoscendo il dolore di ciascuno. Avvalendomi del prezioso lavoro di chi, con analogo approccio e ben maggiore capacità di ricostruzione storica, ha dedicato alla vicenda di cui stiamo parlando una parte significativa del proprio impegno.
È però necessario riconoscere che sin qui a prevalere sono stati dapprima la “congiura del silenzio” e successivamente i racconti gridati, la propaganda, la memoria usata come clava per tenere aperte le ferite e di queste nutrirsi. Una politica avvezza al consenso più che alla verità e all'elaborazione dei conflitti ha fatto il resto.
Così che il lavoro di chi ha cercato – da storico, osservatore od altro – di indicare percorsi di verità e di riconciliazione (non ultimo quello della Commissione mista storico/culturale italo-slovena) è sembrato svanire di fronte alla recrudescenza della divisione e del rancore, cui hanno contribuito le rappresentazioni televisive che hanno sdoganato nazionalismo e fascismo.
In questo quadro, il lavoro di Eric Gobetti affidato ad un agile pamphlet edito da Laterza è importante. Lungi dal proporre un'altra verità storica, né tanto meno dal voler negare o sminuire la tragedia impropriamente definita delle foibe o quella dell'esodo di popolazioni dalla terra che abitavano, questo lavoro cerca di «riportare la vicenda storica al suo dato di realtà», indicando la dinamica degli eventi e le conseguenze che hanno prodotto.
È dunque una proposta di lettura. In queste righe vorrei solo riprendere il filo conduttore che Gobetti propone, a partire da una considerazione forse banale ma utile nel clima di rappresentazione manichea che oggi viene proposta: alla complessità degli avvenimenti che vengono esaminati non può corrispondere una semplificazione delle chiavi di lettura. Non c'è il bene da una parte e il male dall'altra, senza per questo voler mettere in discussione le responsabilità del fascismo e del nazismo dell'aver segnato il Novecento con le stimmate del male assoluto. Ma la necessità di fornire elementi per un'elaborazione collettiva di un conflitto, senza la quale il passato non passa.
Un passato doloroso se pensiamo che l'Italia, nella sua volontà di dominio coloniale, ha seminato dolore e morte in Africa e nei Balcani, nell'Alto Adriatico come in Sud Tirolo. In nome di una “nazione” coincidente con uno “stato”, che praticamente non esistevano fino al XIX secolo. Come scrive Gobetti, quella “comunità immaginata” che ha fatto da sfondo alla nascita dei nazionalismi.
L'ingorgo che il nazionalismo ha creato in questa piccola parte d'Europa è ben esemplificato nella figura di uno dei cosiddetti eroi del Risorgimento italiano, Guglielmo Oberdan. Peccato che alla nascita si chiamasse Wilhelm Oberdank, «nome tedesco, cognome sloveno, identità italiana».
Quello stesso ingorgo farà sì che «a partire dal 1918 quest'area che … è un crocevia di popolazioni e culture, per la prima volta nella sua storia entri a far parte di uno Stato che si identifica rigidamente con una sola nazionalità». È una vicenda che conosciamo da vicino se pensiamo alla coeva annessione italiana del Sud Tirolo e alle ferite ancora oggi aperte malgrado l'alto livello di autogoverno.
L'uso improprio delle parole fa sì che i concetti di Stato e di Nazione vengano usati disinvoltamente come sinonimi, figuriamoci quel che poteva avvenire negli anni '40 con i termini “fascismo” e “italianità”, oppure “slavi”, “partigiani” e “comunisti”. Sovrapposizioni indebite che porteranno esiti disastrosi, quand'anche gli avvenimenti dimostrino come la realtà fosse ben più complessa. Un solo dato: dopo l'8 settembre '43 alla resistenza partigiana in Jugoslavia parteciperanno dai 20 ai 30 mila soldati italiani.
A questo proposito è necessario riconoscere che la resistenza jugoslava nella seconda guerra mondiale ha avuto lo straordinario valore di tenere bloccate nella regione balcanica molte divisioni della Wehrmacht, che altrimenti potevano essere impegnate su altri fronti europei. La Jugoslavia sarà l'unica regione europea a liberarsi da sola dal fascismo e dal nazismo, con un costo umano che non ha eguali in Europa e che andrebbe riconosciuto. Ma nel risorgente nazionalismo italico di tale riconoscimento non c'è traccia.
So bene quanto il conto delle vittime rappresenti un terreno scivoloso. E il libro di Gobetti lo riconosce e ne mette in guardia il lettore. Ma l'uso che ne viene fatto negli ultimi anni è a dir poco vergognoso. Vogliamo parlare dei numeri della Seconda guerra mondiale? Chi volle quella guerra che provocò circa 68 milioni di vittime militari e civili? Vogliamo parlare dei campi di concentramento, delle esecuzioni sommarie, dell'italianizzazione forzata e delle deportazioni nell'aggressione italiana nei Balcani o in Africa?
Certo che ci fu vendetta. «Quel che accade sul confine orientale è, almeno in una certa misura, parte di una colossale “resa dei conti”, comune a tutto il continente europeo. Epurazioni violente, processi sommari, massacri anche di civili ritenuti collaborazionisti dei nazisti avvengono ovunque, alla fine della guerra».
Come dunque non inquadrare le foibe e l'esodo in quel contesto? Quelle cavità naturali di origine carsica sono state usate, in tempo di pace come in tempo di guerra, come luogo di occultamento o di sepoltura frettolosa. E nella Seconda guerra mondiale ne faranno uso tutti i contendenti. Certo che fu una tragedia, perché l'assassinio come la vendetta, scavano solchi profondi di odio e di incomprensione. Ma noi oggi siamo chiamati a ricordare affinché la storia non si ripeta.
Non per giustificare, ma per capire. A questo dovrebbero servire l'elaborazione dei conflitti e i processi di riconciliazione. Il militarismo è stato forse estirpato con la fine della Seconda guerra mondiale? Quante guerre si sono consumate nella seconda metà del Novecento per stabilire supremazia ed aree di influenza? L'idea stessa della deterrenza non è stata coltivata per giustificare la crescita esponenziale delle spese militari?
La memoria dovrebbe servire a riflettere sui drammi del nazionalismo e del militarismo in tutte le loro versioni. Perché solo uscendo dal paradigma secondo il quale la guerra altro non sarebbe che la continuazione della politica con altri mezzi, potremmo davvero voltare pagina.