Uno sferzante articolo a firma di Giulio Marcon, Presidente ICS, pubblicato sul settimanale Carta. Un ulteriore contributo al percorso di dibattito avviato dall'Osservatorio sulla cooperazione allo sviluppo.
"Finché c'è guerra, c'è speranza", il motto ricordato da Alberto Sordi in un suo noto film in cui interpretava un trafficante di armi, potrebbe essere applicato a quella che è una nuova generazione di imprenditori umanitari, maghi del 'pre-positioning' (cioè piazzarsi tempestivamente nelle aree di crisi, in attesa di intervenire e di chiedere i finanziamenti) e dei 'feasibility plan' (studi di fattibilità) cioè ipotesi e modelli di progetti, pronti all'uso, da proporre alle agenzie internazionali. Ad Amman, in previsione della guerra, è un via vai di operatori e missioni umanitarie. A Baghdad un po' meno (problema di visti e di entrata nel paese), ma mai come negli ultimi due mesi il console iracheno a Roma ha ricevuto valanghe di richieste di concessioni di visti delle organizzazioni umanitarie. Più che nei dodici anni precedenti. Non è che i bambini iracheni stiano peggio di due anni fa (comunque sempre male); è che tra un po' - negli scenari postbellici - gireranno tanti soldi tra le agenzie internazionali da far impallidire precedenti emergenze. E, probabilmente, quella irachena sarà effettivamente un'emergenza drammatica. Le 'working figures' - come le chiamano le relazioni delle agenzie internazionali - sono queste: due milioni tra rifugiati e sfollati interni, cinque milioni di persone senza cibo, un terzo del paese, senza acqua potabile. Per non parlare dei bambini: il 25% di loro denutriti e sofferenti di infezioni gastrointestinali.
Di aiuto dunque ne servirà, come sarebbe servito anche prima, pur senza i soldi delle agenzie internazionali. Fino ad adesso a Baghdad c'erano 6 (sei) organizzazioni non governative, tra cui l'italiana Un Ponte per..., che si sono mosse tutte prevalentemente con fondi propri. In uno scenario post bellico si parla di un possibile arrivo tra le 400 e le 500 ONG, presenti per pochi mesi, o al massimo uno-due anni dopo la fine della guerra, il tempo di utilizzare i fondi freschi dell'emergenza mediatica ad uso politico e militare. Poi, via, pronti per una nuova avventura. Niente di nuovo; è stato così in Kosovo e in Serbia, quando prima della guerra le ONG che ci lavoravano si potevano contare sulle dita di una mano, diventare poi molte centinaia nell'immediato periodo postbellico, e ritornare oggi a quelle poche unità di prima del conflitto.
Nelle settimane scorse tra le ONG italiane è successo un fatto straordinario, sicuramente positivo. Questo l'antefatto: Un ponte per... lancia l'idea di un tavolo di solidarietà con le popolazioni irachene e l'ICS la sostiene. Le 'discriminanti' sono esplicite, tre "no" senza se e senza ma: no alla guerra, no all'utilizzo di fondi governativi italiani sia in salsa arcobaleno che in versione istituzionale, no a ogni collaborazione con i militari in uno scenario post bellico. Sin qui niente di anomalo. Quello che stupisce (positivamente) è che quelli che fino a qualche tempo prima hanno fatto i peana della missione arcobaleno, partecipandovi e utilizzandone massicciamente i fondi, accettano tutte e tre le condizioni. Senza tante storie. Ha aderito addirittura l'Associazione italiana delle ONG. Si potrebbe dire, delle due l'una: o (buona fede) si sono tutti ravveduti sulla via di Baghdad - e questa è un'ottima notizia - o (malizia) dietro c'è un fenomeno che la politica (e a questo punto anche il non profit) italiano conoscono bene: si chiama trasformismo, oppure opportunismo. Ma, a pensare male si fa peccato. Per quanto ci riguarda, scegliamo la buona fede. Ripensarci - come sbagliare - è umano.
Qualche dubbio ci viene quando leggiamo questa dichiarazione di Sergio Marelli, Presidente dell'Associazione italiana delle ONG (Vita del 20/02/03) a proposito del tavolo di solidarietà cui l'associazione delle ONG ha aderito: "Ho firmato perché in questo modo rappresentiamo un interlocutore riconoscibile per il governo nel momento in cui si discuterà di aiuto umanitario". Proprio quello di cui - chi ha proposto il tavolo - non vuole sentire parlare. E poi il giornalista del non profit bipartisan magazine traduce il pensiero di Marelli in questo modo: "una presa di posizione (il rifiuto dei fondi governativi) che non trova corrispondenza nel pensiero di Sergio Marelli". Sicuramente è la presa di posizione di Marelli che non trova corrispondenza nel tavolo di solidarietà con le popolazioni irachene.
Una cosa è certa: sposare in modo incondizionato una nuova missione umanitaria governativa sarebbe (vista anche l'enorme ondata pacifista) il definitivo suicidio per una parte delle ONG, già in pesante crisi di legittimità (anche per la pagina nera di Arcobaleno): e poi una missione 'alternativa' può essere un modo efficace per recuperare fondi per fare progetti e attività. C'è chi in modo un po' doroteo prova a distinguere: tra fondi di una nuova missione arcobaleno (non accettabili) e fondi 'ordinari' del Ministero degli Affari Esteri (accettabili). Oppure, come si dice a Roma, la "si butta in caciara": cioè i fondi di un governo che fa la guerra sono cattivi quanto quelli delle agenzie internazionali (cioè di un ONU che viene boicottato oppure strumentalizzato da Bush), come quelli delle istituzioni europee (oggi profondamente divise, alle quali partecipano sia i governi contrari alla guerra - la maggioranza - che quelli a favore) per arrivare alla conclusione che essendo tutti cattivi, questi soldi, che bisogna fare? Usiamoli tutti, no, che differenza fa! In fondo sono tutti fondi 'dei cittadini'. Finora nessuno, tra i non governativi, ha - fortunatamente - provato a sostenere un'altra e ulteriore opzione: la dalemiana tesi che questa guerra (preventiva) è diversa da quella del Kosovo (umanitaria) e che oggi c'è Berlusconi e allora c'era D'Alema: ma la decenza ha dei limiti, per tutti. E la natura della guerra (e delle missioni umanitarie che l'accompagnano) non cambia né con gli aggettivi, né con i premier.
Colpisce in questo contesto l'imbarazzo e la circospezione del magazine del non profit bipartisan Vita che della missione arcobaleno è stato alfiere, megafono e innamorato fedele. Orfano di Marco Vitale, passato a miglior incarico (non a quello di Ministro degli Esteri al quale Vita l'ha gagliardamente e inutilmente candidato), Vita e il suo direttore, probabilmente si interrogano - oltre che su come dividere i buoni ed i cattivi del movimento - a come dare un seguito iracheno a quella luminosa esperienza sui quali il suo commissario (che ne ha gestito i fondi 'privati') ci ha stupito con indimenticabili liriche pagine di diario e con successivi libri pieni di critiche toste e condivisibili alla Arthur Andersen, alla quale solo due anni prima aveva affidato - crema della crema delle società di certificazione, Worldcom docet, figuriamoci l'Arcobaleno - il controllo dei conti della missione. In attesa che il magazine di 'lotta e di governo' scelga, superando la propria crisi di identità, su quale causa puntare (la lotta o il governo), l'esecutivo di Berlusconi, senza aspettare il non profit bipartisan, si è mosso: ha convocato regioni ed enti locali, il Ministero dell'Interno ha attivato i suoi esperti e 'prefetti' in attesa dell'arrivo di migliaia di profughi iracheni (ovviamente clandestini, immigrati economici, potenziali delinquenti, futuri terroristi) che non aspettavano che la scusa della guerra per andare a turbare i sogni di Bossi e Fini.
Di fronte a questo scenario il 'tavolo di solidarietà con le popolazioni irachene' si è posto in modo diverso, alternativo. L'adesione di Ingrao e Ciotti, come patrocinatori e garanti, è certo una garanzia; e non sarà solo un tavolo di ONG, ma anche di movimenti, associazioni ed organizzazioni che hanno promosso la mobilitazione pacifista e i criteri e le regole saranno ferree: chi utilizza fondi del governo italiano sarà escluso immediatamente. E a decidere su come utilizzare i fondi non saranno (questo l'auspicio) le stesse ONG che li useranno per progetti, ma un comitato di gestione autonomo. Una area 'no war' di solidarietà pacifista 'senza se e senza ma' dove i nostrani avvoltoi umanitari non avranno diritto di sorvolo.
Giulio Marcon - Presidente ICS
L'Osservatorio sui Balcani ha posto tra le priorità del proprio lavoro la promozione di un dibattito e di una riflessione interno al mondo delle ONG, associazioni, enti locali coinvolti in progetti di emergenza e cooperazione allo sviluppo su cosa significhi e cosa sia significato fare cooperazione in particolare nell'area balcanica. L'inizio di questo percorso è stato rappresentato dal convegno nazionale "Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive" tenutosi a Trento nel novembre 2001. Invitiamo quindi i lettori a reagire eventualmente all'articolo di Giulio Marcon qui sopra pubblicato. Per quanto possibile daremo spazio sul sito ad articoli di riflessione e di risposta.