La Prima guerra mondiale trascinò un gran numero di bosniaci-erzegovesi sul fronte alpino-dolomitico, determinando un incontro inedito con la cultura e la popolazione locale. Oggi qualcuno riprende a parlarne
“Ci troviamo sui resti di quella che un tempo era chiamata la via dei Bosgnachi, una via militare costruita dall’Esercito austro-ungarico a partire dal 1917 che collegava i magazzini di fondovalle con le linee fortificate e trincerate del monte Cengledino. Come dice il nome, probabilmente fu costruita da operai militarizzati bosniaci”, racconta Aldo Gottardi, storico originario del paese di Tione, nel Trentino occidentale. Con pazienza ha ricostruito il percorso originale di questa vecchia mulattiera di guerra, oggi in parte recuperata e asfaltata, in parte restituita alla vegetazione, che gradualmente ne cancella le ultime tracce. Anche la consapevolezza della sua origine in paese va perdendosi, ma “il nome è rimasto nella popolazione, che la ricorda ancora così” ci spiega Gottardi.
Risalendo la Val Rendena in direzione di Madonna di Campiglio, dizionario toponomastico locale alla mano, ci si imbatte in altri riferimenti simili: pian dei bosniaci, baracca dei bosniaci, chiesetta dei bosniaci. La lista si allunga trasferendosi in altre zone di quello che era il fronte alpino-dolomitico della Prima guerra mondiale. Sulle montagne della Val di Fiemme si possono affondare gli scarponi nel “ghiaione dei bosniaci”. A Molveno, alle pendici del massiccio dolomitico del Brenta, un quartiere del paese viene ancora oggi chiamato Bosnia, sembra proprio per la presenza di soldati bosniaci durante la Grande Guerra. Un’altra Bosnia, per motivi simili, è rimasta a Passo San Lugano, al confine tra le province di Trento e Bolzano. Ulteriori tracce si possono scovare interrogando pazientemente la memoria degli anziani, tra le piazze e i bar dei paesi sparsi per le vallate del Trentino.
Quanti furono gli uomini provenienti dalla Bosnia Erzegovina che vissero gli anni della Prima guerra mondiale su questo fronte è difficile da verificare senza un apposito lavoro di indagine negli archivi viennesi. I bosniaco-erzegovesi arrivarono come sudditi dell’Impero austro-ungarico, che aveva occupato la Bosnia Erzegovina ottomana nel 1878 e ne aveva sancito la definitiva annessione nel 1908. I soldati mobilitati tra Sarajevo, Banja Luka e Mostar furono impiegati, al fianco dei propri commilitoni provenienti da tutte le regioni dell’Impero, in alcune importanti battaglie registrate su questo fronte: dagli altipiani tra Trentino e Veneto fino alle cime della Val di Fassa. I resoconti degli ufficiali austriaci spesso insistono sulla combattività di queste truppe impiegate negli assalti. Un immaginario che risuona anche nella voce di un reduce del luogo: “I bosgnachi andavano a far l'attacco come a ‘nar a far ‘na partita alle carte”, raccontava negli anni Ottanta l’ex Standschütze Giuseppe Felicetti Zompin, intervistato da Michele Simonetti Federspiel.
È certamente meno noto l’impiego di uomini provenienti dalla Bosnia Erzegovina come operai, inquadrati in squadre che si occupavano dei lavori delle retrovie del fronte di guerra. Il lavoro alla costruzione di strade o al mantenimento delle infrastrutture militari non risultava necessariamente meno pericoloso delle trincee. Lo ricordano le parole di Fritz Weber, ufficiale austriaco nella zona fortificata tra Folgaria e Lavarone: “Durante la notte, l’intera guarnigione e un reparto di operai bosniaci della territoriale lavora alacremente per rimettere il forte in piena efficienza. […] Tutti questi lavori devono essere compiuti sotto l’occhio del nemico, […] e sotto il fuoco della sua artiglieria da campagna e di medio calibro. Ci costano la vita di parecchi bravi ragazzi che non hanno fatto tempo a trovare riparo dai proiettili”.
Come altre migliaia di uomini che furono trascinati in alta quota dalla guerra verticale, i bosniaci erano vittime anche della montagna e degli elementi naturali. Ne è triste esempio la notte del 13 dicembre 1916. In una delle date più tragiche per quanto riguarda la storia delle valanghe sul fronte alpino, in Marmolada si staccò una enorme massa di neve che spazzò il campo di baracche principale allestito in località Gran Poz seppellendo, tra gli altri, 103 portatori bosniaci. Pochi sopravvissero.
Stereotipi e quotidianità bellica
È oggi disponibile un’ampia letteratura che illustra come le popolazioni balcaniche venissero spesso percepite in Europa occidentale attraverso lenti stereotipate e non di rado peggiorative ben prima dello scoppio della guerra. Per quanto riguarda i bosniaci, l’appartenenza di una parte della popolazione alla religione islamica rafforzava i cliché orientaleggianti e la percezione di alterità.
Voci negative potevano rincorrersi tra la popolazione già prima dell’effettivo incontro con i soldati bosniaci. Scriveva Enrico Koch nel gennaio del 1918: “Partono le truppe di nazionalità tedesca per far posto alli Bosniaci provenienti da Lavis laddove furono molto maldescritti per quanto mio e tuo. Vedremo, ma intanto si trema!”. Tracce delle dicerie che circolavano allora sono rintracciabili ancora oggi in Trentino. La roveretana Chiara ci racconta che anni fa, quando partì per un viaggio tra Mostar e Sarajevo, sua nonna – classe 1915 -- le disse tra il serio e lo scherzoso: "Ma veramente, in Bosnia? Ocio eh, che i nosi veci i diseva Catif come en bosgnac” [Attenzione eh, che i nostri vecchi dicevano Cattivo come un bosniaco].
D’altra parte, la sopravvivenza in tempo di guerra rappresentava una sfida quotidiana e la convivenza tra civili e militari era tutt’altro che priva di tensioni, in particolare quando il prolungamento della guerra e le carenze alimentari resero la vita particolarmente dura in queste regioni dell’Austria-Ungheria. Nei diari e nelle memorie tali difficoltà riemergono chiaramente, chiamando in causa tra gli altri anche i bosniaci. Ha raccontato Sisto Plotegheri, un anziano paesano trentino, in un’intervista a Fernando Larcher del 1999:
"Anch'io stavo tra i pochi civili rimasti in paese. Ero un bambino di nove anni e ricordo bene quando sono arrivati i primi soldati, erano bosniaci. Hanno fatto man bassa di tutto quello che c'era in paese. Entravano con i cavalli dentro nelle stue. Per cucinare bruciavano cassepanche e armadi".
Le tensioni legate alla sopravvivenza quotidiana si ritrovano anche nelle annotazioni del diario di Don Perli, parroco di un paesino del Trentino, nell’estate del 1918:
“A Rancone ed anche in Rendena i militari – per lo più bosniaci – che girano le campagne per far bottino di patate difendono l’opera propria contro i padroni, od altri che si opponessero, colle granate a mano, colla rivoltella, o col fucile”.
Incontri
Gli spostamenti di uomini prodotti dal conflitto in tutta Europa d'altra parte produssero esperienze di incontro che, anche in Trentino, ebbero risvolti umani e solidali. D’altra parte la convivenza nei paesi e nei luoghi di lavoro poteva risultare tale da produrre comprensione e empatia. Scrisse il trentino Stefano Costantini del suo incontro con un battaglione bosniaco: “Tutta gente ben formatta e alta, ma bisognava vederli in fronte agli stenti ed i patimenti che avranno dovuto sopportare. Gli indumenti, se cosi si potessero chiamare, gli cadevano a brandelli”. I bosniaci sono rievocati anche dal suo conterraneo Romeo Dorna, che si sofferma su un episodio di solidarietà probabilmente non isolato:
“Un giorno è venuto in negozio un bosniaco, grande come un gigante (erano tutti grandi i bosniachi), e affamato come un lupo. Ha visto sul banco questo sapone, è balzato e con una mano ne ha preso un pugno e l’ha messo in bocca dicendo: polenta! Credeva, infatti che fosse polenta, e potete immaginarvi gli sputi e le facce che ha fatto questo povero cristo. Per consolarlo, mia mamma gli ha dato un pezzo di polenta vera che era avanzata da pranzo. Questo povero cristo l'ha divorata, anche se aveva in bocca il sapore del sapone”.
Al di là di alcuni retaggi culturali negativi, gli incontri producevano confronti piuttosto inediti per il luogo e il periodo. Destavano ad esempio impressione e fascinazione le pratiche religiose dei soldati bosniaci di religione musulmana. Alla gente “sembrava di vivere in un altro mondo” ricordava Candido Degiampietro, durante la guerra bambino in un paese che vide l’erezione di un rudimentale minareto bosniaco a pochi passi dal campanile della chiesa. Secondo altre memorie tramandate il culto islamico era ben visibile anche altrove. Un racconto riporta le impressioni delle commemorazioni ai soldati caduti: “Ricordo una volta su un lenzuolo c’era sopra una mezzaluna e le stelle, la Turchia insomma, o musulmani, e noi correvamo tutte dietro a guardare”. Altre voci di paese raccontano di preghiere recitate dalla popolazione locale per i bosniaci caduti in combattimento.
In alcune situazioni particolari, l’incontro portava a piccole contaminazioni culturali. Dai bosniaci che incontrava in osteria “mia nonna aveva imparato a contare fino a cinque: jedan, dva, tri, cetiri, pet” ci racconta ancora oggi Maria Piccolin, bibliotecaria in pensione del paese di Moena, all’ombra delle cime dolomitiche patrimonio Unesco.
È necessario resistere alla tentazione di trarre conclusioni articolate ed esaustive sulla natura e le conseguenze di tali incontri. Le testimonianze andrebbero ulteriormente vagliate e integrate con altre fonti. Mancano purtroppo le voci dei bosniaci stessi, protagonisti di queste esperienze sul fronte italo-austriaco. Resta in ogni caso l’impressione che si trattò di una vicenda tutt’altro che insignificante per la popolazione locale. Come ogni incontro, produsse reazioni diversificate, influenzate dal retroterra culturale, dalle circostanze concrete in cui esso avvenne e da sentimenti umani più profondi.
Memorie
Molti uomini arrivati in Trentino durante la Grande Guerra sono rimasti sepolti nella terra in cui combatterono o lavorarono, mentre il loro ricordo si è per lungo tempo annidato tra le memorie di singoli, famiglie o comunità. Le loro tombe sono ancora oggi tra le poche testimonianze capaci di restituire pubblicamente un nome ad alcuni bosniaci che vissero il conflitto in Trentino. Si trovano sparse nei cimiteri militari ancora esistenti: a Lavarone riposano tra gli altri Resid Hodzić di Bihać e Risto Bogdanović di Mostar, presso il cimitero militare di Bondo sono sepolti Mustafa Suljaković e Ahmed Dupić, deceduti nel gennaio del 1917. Molti altri sono stati trasferiti al Sacrario militare di Castel Dante a Rovereto, tra questi Rado Ilić della zona di Bijeljina, Božo Ćurić di Fojnica e Hasan Vrebac, tutti deceduti in Val Rendena nel corso del 1918.
Esiste un unico monumento che ricorda la presenza dei bosniaci-erzegovesi su questo fronte di guerra. Venne dedicato nel 1996 al Secondo reggimento della Bosnia Erzegovina sul Monte Fior (Melette), in provincia di Vicenza, ed è stato in più occasioni visitato anche dalle autorità bosniache. Negli ultimi anni, tuttavia, nelle vallate del Trentino si è cominciato a riscoprire quella che fu la “storia degli altri”, nell’ambito di una guerra che tanto sconvolse questo territorio. Tra questi anche i bosniaci. La mostra La Gran Vera 1914-1918, inaugurata nel 2014 a Moena, dedica ad esempio una certa attenzione alla presenza dei soldati con il fez. Oggi, a Ziano di Fiemme, un cartello informativo racconta a locali e turisti la presenza di un minareto e dei soldati bosniaci in paese. Ed è allo scopo di offrire un contributo in questa direzione che è stato concepito il progetto “Grande Guerra: l’Europa in Trentino e l’incontro con l’Altro”, promosso da OBCT e volto a riscoprire questa storia di relazioni tra persone provenienti da territori lontani, portatrici di diverse lingue, culture e religioni, pur nella tragica quotidianità della Grande guerra.
Pubblicazione prodotta nell’ambito del progetto “Grande Guerra: l’Europa in Trentino e l’incontro con l’Altro”, con il sostegno della Fondazione Caritro
Podcast
Scopri di più su queste vicende e ascolta il podcast “Zent – genti, culture e incontri nel Trentino della Grande Guerra”, realizzato da OBC Transeuropa in collaborazione con Extinguished Countrie s. Lo trovi su OBCT e sulla tua piattaforma podcast preferita!