Un articolo di Michele Nardelli per richiamare la centralità - spesso invece dimenticata - della "questione balcanica" nel dibattito odierno della globalizzazione. L'articolo è uscito anche su Carta.
C'è un luogo dove le dinamiche della globalizzazione si esprimono in forme anticipatorie tanto da farne uno snodo emblematico di indagine sulla modernità. E che si insiste ad ignorare, quasi rimovendolo, un po' perché la rimozione è il tratto caratteristico del nostro rapporto con questa parte d'Europa tanto diversa e ricca di civiltà e intrecci culturali, un po' perché non rientra negli schemi semplificati ai quali ci ha abituato il '900.
La lettura degli avvenimenti balcanici degli ultimi dieci anni come il prodotto di arcaici risentimenti nazionali ed etnici, quanto meno superficiale, ha contribuito a non far cogliere appieno il segno di questa tragedia nel cuore dell'Europa. Certo, dieci anni di guerre non si spiegano senza una base ampia di consenso ed il richiamo nazionalistico ha avuto esattamente questa funzione. Così il disegno di una nomenklatura che decide di succedere a se stessa, può anche essere considerato il colpo di coda nell'agonia dei vecchi regimi, ma c'è dell'altro.
C'è qualcosa di terribilmente moderno nelle vicende che hanno segnato i Balcani degli anni '90, che coniuga l'agonia del vecchio sistema di potere con le dinamiche della globalizzazione e che investe nodi decisivi quali il ricorso alla guerra come strumento di ridislocazione dei poteri, le modalità hard dell'accumulazione finanziaria, il controllo dei corridoi strategici fra l'Europa, il Caucaso e l'Oriente, il rapporto fra guerra ed industria della ricostruzione.
Le maschere di questo tragico giuoco hanno interpretato al meglio il ruolo loro assegnato di tutori di un'immensa area off shore. Tanto che, ad un certo disegno occidentale, Milosevic era più funzionale di Kostunica, Tudjman di Racan e così via. È come se con la fine del bipolarismo, ad est si fosse aperta un'enorme voragine in grado di funzionare come fattore di attrazione di illimitati traffici ed affari, dove allocare i santuari dell'accumulazione finanziaria.
Non è affatto casuale che gli industriali del nord est si riuniscano non a Treviso ma a Timisoara, in Romania, laddove 7203 imprese italiane imperversano nello sfruttamento di manodopera a costo zero, nell'assenza di regole ambientali, né tanto meno sociali. E non è casuale che i Balcani siano diventati lo snodo dei traffici di armi, droga, sigarette, per non parlare del traffiking di donne e bambini, del riciclaggio del denaro sporco, in un intreccio fra economia legale ed illegale dai contorni sempre più sfumati.
Così come non è per nulla casuale che i paesi dell'est europeo stiano diventando la pattumiera di un modello di sviluppo insostenibile. All'eclatante decisione del parlamento russo di trasformare la Siberia in un'immensa discarica nucleare, corrispondono i molti episodi, solo in minima parte conosciuti, di trasformare i vecchi siti minerari di quella che un tempo era la Jugoslavia in altrettanti depositi di scorie tossiche.
Deregolazione e povertà, poteri mafiosi e corruzione, sono gli ingredienti attraverso i quali un'intera area geografica come quella balcanica viene inclusa ed esclusa al tempo stesso. Un immenso casinò, dove si gioca sul presente e sul futuro di un'umanità annichilita dalle macerie dei regimi e delle guerre, comprese quelle umanitarie, compreso il circo umanitario che spesso le segue, altrettanto invasivo ed insostenibile.
E se il miracolo economico del nord est italiano è "made in Romania", c'è un'interdipendenza che si riverbera in termini di instabilità anche nel nostro paese: immigrazione, effetti deregolativi sul mercato del lavoro, prostituzione, coinvolgimento nelle guerre "umanitarie" e quant'altro. Ed è davvero strano che le cause profonde di questi fenomeni siano così sbrigativamente e superficialmente affrontate, quasi non avessero nulla a che vedere con la globalizzazione. È proprio vero che con la fine del bipolarismo sono andati in crisi vinti e vincitori.
In realtà, attorno alla "guerra dei dieci anni", non si è riflettuto a dovere. E ciò è riconducibile proprio al fatto che nella tragedia balcanica degli anni '90 più che altrove si rappresentava la crisi del '900, di culture che si nutrivano delle medesime categorie. Una sorta di pudore verso un fallimento che investiva - nel loro delirio d'onnipotenza - l'est e l'ovest, quand'anche il secondo uscisse vincitore della sfida e il primo sconfitto.
Molto più concretamente il divenire dell'est europeo come il nuovo eldorado per ricercatori d'oro ignoranti e privi di remore, ha lasciato da parte ogni superflua propaganda ideologica per lasciar fare ad un più pragmatico "cogli l'attimo", ovvero l'agognata deregolazione più volte auspicata per il nostro paese e forse mai sperata in forme così estreme, il richiamo al "diritto naturale". Trovando ad est l'anticipazione di quel modello sociale dell'antipolitica, che vede nello stato, nelle leggi, nella politica solo ostacoli verso il dispiegarsi di un sistema che qualcuno ha definito neo feudale. Approfittando delle macerie, quelle materiali, non meno di quelle sociali e nell'intimo delle persone, i protagonisti del nuovo miracolo italiano hanno trovato lì le loro aspirazioni di "integrale libertà".
Sullo sfondo di tale devastazione, la crisi fiscale degli stati nazionali nati dalle guerre, dato strutturale considerato che la gente non ha un lavoro regolare e che prevale un'economia parallela che sfugge ad ogni forma di controllo pubblico. Le uniche entrate significative in questo momento vengono dalle risorse non ancora privatizzate o dai programmi di aiuto internazionale, delineando così una condizione di dipendenza che rischia di divenire permanente. Mesi e mesi di ritardo nel pagamento di stipendi e pensioni, servizi pubblici al collasso, mancanza di luce elettrica e di riscaldamento, l'assistenza sociale abbandonata a se stessa... questa è la normalità del presente balcanico. Una situazione di forte frustrazione in relazione alle aspettative di cambiamento, tanto da avere come effetto il paradosso che alla fine dei regimi corrisponde un peggioramento delle condizioni di vita delle componenti sociali estranee al business.
Ora, continuare a considerare queste aree come paesi in transizione è fuorviante. L'economia di mercato in questi paesi c'è, eccome, e ha assunto le forme estreme della post modernità. Pensiamo alle piramidi finanziarie, all'economia di guerra o ai processi di privatizzazione, funzionali ad investimenti di rapina e al riciclaggio dei vecchi apparati di potere insediatisi in posizioni di controllo delle grandi aziende di stato.
Le inedite condizioni nelle quali si trovano molti paesi dell'area balcanica pongono l'urgenza di risposte altrettanto originali, capaci di far leva sulle potenzialità del territorio, di attivare le risorse umane, la qual cosa indica la necessità di incrinare l'apatia sociale principale retaggio dei regimi e delle guerre.
Del resto, questa sembra essere l'unica strada per tentare di ricucire un rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione. Un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un'ottica diversa tanto dallo statalismo che dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale. Siamo di fronte alla necessità di uno scarto culturale tutt'altro che scontato in società che garantivano paternalisticamente forme diffuse quand'anche qualitativamente discutibili di protezione sociale, scarto che presuppone una fitta rete di forme di auto-organizzazione della società ed un etica della responsabilità oggi improbabile nella brutalizzazione delle relazioni sociali che segnano questi paesi. Un nuovo patto di cittadinanza che relazioni le persone oltre la loro appartenenza nazionale, coniugando la dimensione territoriale con quella globale. Una ridislocazione dei poteri, un grande progetto "auto-da-fé", capace di valorizzare saperi e laboriosità, qualità dunque, da contrapporre alla prospettiva dei Balcani come discarica dello sviluppo e come mercato dei sottoprodotti dell'occidente.
Insomma, c'è un altro itinerario possibile di integrazione europea, che definisce parametri economici, sociali, ambientali e democratici non nell'astratto grigiore delle statistiche, ma in una grande sfida che riguarda l'insieme dell'Europa, la nostra e quella al di là del mare. È quella proposta nell'Appello per l'integrazione dei Balcani nell'Unione Europea che verrà presentato a Sarajevo il prossimo 6 aprile, nel decimo anniversario dell'inizio della guerra di Bosnia. In quell'occasione verrà anche lanciata la proposta "Europa dal basso", un percorso della società civile che in questi dieci anni ha dato corpo ad uno straordinario patrimonio di solidarietà, di progetti, di relazioni che continua ancor oggi e che vorremmo protagonista di un'Europa non più dimezzata.
Michele Nardelli