In Transilvania tutto è diverso dalla Pianura padana. Il mondo è un villaggio di contadini, fermo nel tempo. Che può non bastare, un giorno, per chi ha i sogni grandi della giovinezza. Un viaggio di formazione dedicato a chi fugge di casa e poi sceglie di tornare
«Avevamo una casa bellissima, con muri di mattoni blu scuro come il cielo prima di una tempesta autunnale, e le finestre abbastanza piccole, molto comuni nelle case dei contadini, che si affacciano sul bosco e le dolci colline che circondavano il villaggio.»
Il fazzoletto bianco inizia con questa visione nitida, accompagnata da una immagine in bianco e nero. I colori sono da immaginare: blu, grigio, rosso, giallo. Analogamente a quanto accade in fotografia, in cui il tempo e le cose possono rimanere intatte, finché il supporto non si disintegra, siamo dentro una visione dove tutto sembra vivo. La fotografia è “istante” (presente), ma è anche una macchina di ricordi (passato) e raccontare, come in questo caso, attraverso le parole e le immagini, è l’unico modo per diradare l’oscurità e tramandare (futuro).
La frase d’attacco suona come una dichiarazione d’affetto rivolta, anziché a una persona, a un luogo speciale: la propria terra madre. Eppure, casa, mattoni, cielo, finestre, bosco, colline, sono nomi comuni, privi di una connotazione culturale o storica o geografica specifica. A rendere “unici” questi elementi è un sentimento umano che ha radici profonde. In una frase, se andate a rileggere, è racchiuso un mondo ben conosciuto e amato dall’autore. Qualcosa, nell’uso del verbo al passato, dice che adesso, nel tempo presente, tutto potrebbe essere diverso, irriconoscibile. Quando e dove si svolgano i fatti con esattezza, è una domanda aperta, a cui i lettori sono esortati a rispondere, prima di voltare pagina e ottenere conferme. Non tanto per cercare di indovinare, quanto per “riscaldarsi” e prepararsi, con l’immaginazione, a compiere spostamenti lungo gli assi del tempo e dello spazio: a cosa servono la geografia e la storia, se non a viaggiare?
Ogni doppia pagina è concepita come un quadro unitario: a sinistra lo spazio delle parole, a destra quello delle immagini. Ambedue nero su bianco, ambedue forti di riferimenti biografici che lasciano affiorare alcuni aspetti identitari dei due autori. Viorel Boldis, autore del testo, porta con sé la storia del popolo rumeno; quella della propria famiglia; quella del ragazzo che fu e dell’uomo che è diventato. Antonella Toffolo, nata a Milano e vissuta nel Frignano, già autrice per Topipittori di un indimenticabile Pifferaio magico di Hamelin, sembra dare voce ai ricordi di infanzie e adolescenze trascorse in Appennino, anche quando si tratta di figurare un’altra campagna, l’est Europa, la Transilvania.
«Transilvania! Terra misteriosa, fatta di leggende e miti, draghi e vampiri, streghe e malocchi. E foreste. Immense e meravigliose foreste. Io sono nato in quelle terra, in quel mondo dimenticato dal tempo, prigioniero dei sogni dei nostri antenati, e, purtroppo, anche degli incubi di qualche dittatore.»
Chissà cosa dice la parola “Transilvania” o “Romania” a chi ha dieci anni nel 2010? Oppure a chi ha genitori e parenti rumeni, ma vive in Italia stabilmente? Romania, come testimonia Boldis, può voler dire molte cose diverse, a seconda di dove siamo nati, dell’età che abbiamo, dei trascorsi famigliari, perfino dei gusti letterari, dal momento che chi ama le storie di vampiri sa bene che Dracula è originario della Valacchia. Il fazzoletto bianco è un’occasione per avvicinarsi in modo rispettoso a un argomento difficile nel nostro paese, di cui è facile sentire parlare a sproposito e con i toni sbagliati: l’immigrazione.
«Portavo a pascolare le capre, poi le mucche e i bufali, andavo a scuola e prendevo buoni voti e i miei erano contenti. […] Fare il contadino in Transilvania, a quei tempi, sicuramente non era facile, come non è facile oggi, ma la vita in campagna era straordinaria.»
Il protagonista, quando non taglia l’erba e non munge il bestiame, corre. Sono frequenti le pagine in cui lo seguiamo andare veloce a gambe nude, in mezzo ai solchi del grano. Perché? Dove va? Quanto è diversa la sua corsa da quella di un maratoneta o di un dilettante che fa jogging un po’ dove gli pare, al parco, sulla spiaggia, allo stadio, in palestra, sulla strada statale? Siamo circondati da gente che corre, non mancheranno spunti ai lettori, per riflettere sui significati superficiali e profondi di questa attività che, prima di tutto, è energia vitale, fuga in avanti, istinto, fisicità.
Capita, al giovane, di combinare ragazzate. In questi casi, un padre autoritario può fare di tutto, anche picchiare. Perciò, tornare a casa è una pessima idea. Meglio attendere e aspettare un segnale: «Era un piccolo fazzoletto bianco alla finestra, appeso dalla mamma naturalmente all’insaputa del “generale”!»
È il bello di certe relazioni intime saper comunicare attraverso un linguaggio non verbale, fatto di oggetti e gesti simbolici, semplici ma efficaci, come qui. In fondo, dietro a ogni nostro comportamento, buono o cattivo che sia, ci sono messaggi da decifrare.
«Il giorno in cui dissi a mio padre che volevo andar via, in cerca di fortuna, chissà dove, la prese male, anche perché ero figlio unico. “Se vuoi andare, vattene, ma non guardare indietro, non avere rimorsi. Vattene per sempre” mi disse, sopraffatto dalla rabbia e dalla tristezza. E io, figlio suo, testardo come lui, sono andato. Ogni tanto, voltandomi indietro, ma sono andato.»
Facile decidere che vestiti indossare domani mattina. Difficile scegliere di cambiare la propria vita, dalla a alla zeta: nuova casa, nuove strade, nuovo paese, nuove persone, nuovo lavoro, nuovo mondo.
«Per quasi due anni non mi sono più fatto vivo. Alla fine, però, il contadino che c’era in me, che per fortuna non si era perso del tutto nella fitta nebbia padana, uscì allo scoperto, e gridò tutta la sua rabbia, tutta la tristezza e la malinconia che aveva dentro. Così, decisi di ritornare».
Che cos’è la nostalgia? Lo scrive il vocabolario e lo riporta internet: “nostalgia” è una parola di origine greca, che nasce dall’unione di due due termini, nostos, cioè il ritorno, e alios, cioè il dolore. Il fazzoletto bianco è un modo per spiegare ai bambini che soffrire di nostalgia è umano, che ogni età è valida per provare questo sentimento e che non c’è motivo di imbarazzarsi se qualcuno, allontanandosi dai propri genitori o da casa, ha avuto voglia di piangere. Di nostalgia, infatti, non si muore, ma si vive. È questo il messaggio finale del libro. La nostalgia di Boldis e Toffolo, e con la loro quella dei lettori, può procurare, insieme alla commozione, un’energia esplosiva che sembra arrivi direttamente dal centro della terra. È questa forza misteriosa che tiene attaccati con sicurezza punti lontanissimi: i mondi vecchi con i mondi nuovi, gli aldiqua con gli aldilà.
«Il giorno di Natale arrivai al villaggio. Erano passati due anni dalla mia fuga. Decisi di fare a piedi i due chilometri che mancavano dalla nostra casa. Man mano che mi avvicinavo, il cuore mi batteva sempre più forte. Speravo con tutta l’anima di trovare il fazzoletto bianco appeso alla finestra. […] Mi misi a correre con il cuore in gola e quando finalmente arrivai vicino…»
Benvenuti nella città bianca.