La casa editrice di Belgrado Ultimatum ha pubblicato l'ultimo romanzo del nostro collaboratore Božidar Stanišić, titolato "Žirafa u Čekaonici/La giraffa in sala d'aspetto". Su concessione dell'autore, la traduzione di un capitolo
(Tratto dal tredicesimo capitolo del libro "Žirafa u Čekaonici", Ultimatum.rs , pp.267, 2018)
Klara, mia coetanea. Con i genitori era arrivata da Osijek quel tardo autunno, l’ultimo di pace in Bosnia, in casa di sua zia Mara, la nostra prima vicina. Attraverso la recinzione, scuotendo i ricci dei suoi lunghi capelli biondi, mi diceva che lei là – e quel suo là era dove avevano una bella casa, un giardino e un grande frutteto – aveva una bicicletta, rossa come una fragola. Aprivo il cancelletto nello steccato che conduceva nell’orto e nel cortile di sua zia e la invitavo a provare il mio monopattino, ma lei rimaneva dalla sua parte ripetendo che lei sapeva andare solo in bicicletta. Tuttavia, un pomeriggio di quel tardo autunno, freddo, era lì per nevicare, acconsentì a prendere il mio monopattino. Inciampò maldestramente sul bordo di cemento di casa nostra, ma quando volli mostrarle come si va in monopattino, si fermò e disse: “Basta! Perché devo imparare ad andare sul monopattino? In Canada avrò una bici nuova. Me l’hanno promesso i miei genitori!”
Canada? Allora non sapevo dove fosse quel paese.
“Non sai dov’è il Canada?”, si stupì Klara senza nascondere la sua onnisciente altezzosità. “Allora, devi sapere che è lontano, al di là di un oceano…”
Non sapevo neppure che cosa fosse un oceano, né tentai di dirle quanto lontano può essere tutto: dalla cima del più vecchio e più alto melo del nostro orto, fino alla quale avevo voluto infinite volte arrampicarmi, rinunciando già al primo ramo, fino a quella soglia dalla quale inizia il tuo coraggio mentre la paura rimane dall’altra parte, ma solo se davvero salti nella piscina comunale, e non ti limiti a restare vicino all’acqua chiedendoti quanto è profonda. (Quella è la mia ansia, sempre la stessa, ma aumentata con l’età: “Che gli altri non vengano a sapere quante cose non so!”)
“L’oceano?”
“Ah”, gridò, “neanche questo sai! Il mare è uno scherzo rispetto all’oceano…”
“Quindi, l’oceano è un mare più grande di tutti i mari!”
“Sì, l’oceano è…”, balbettò, come se si fosse pentita di qualcosa. “Sai, non voglio parlare male del mare, voglio solo dirti che l’oceano è enorme. E il mare? Noi eravamo in ferie a Zara, dormivamo e mangiavamo in un bellissimo hotel…”
Non sapevo dove fosse la città di Zara, ma annuii. Al mare io conoscevo la città di Gradac. Il nostro “hotel”: la casa di šjora Kate. Là anche mio padre, da piccolo, trascorreva l’estate con i suoi genitori. In realtà, solo un’estate di Gradac mi è rimasta impressa nella memoria. L’anno che andammo a Parigi, a Braco e a me dissero che saremmo andati di nuovo al mare, ma l’estate seguente. (Allora circolava molto la parola situacija, che io odiavo!) Un mattino a Gradac, sul balcone di quella casa con la vista sul molo e la lontana linea dell’orizzonte che unisce il mare e il cielo, chiesi a papà che cosa ci fosse dietro a quella linea. “Il mare…”, rispose. “E poi dietro-dietro?” Mi rispose che dietro-dietro si trovava un paese che si chiamava Italia. Era la prima volta che sentivo il nome di quel paese. “A Gradac siamo sempre stati bene”, diceva a volte mia madre, “là sulla spiaggia non c’è sabbia, ma ciottoli. Se sul sentiero attraverso la pineta pesti un po’ di resina, non c’è da preoccuparsi: la sabbia non si appiccica ai piedi.” Al mare in questa parte d’Italia ci è andata malvolentieri, come mio padre, e solo per Braco e me. Penso che in acqua siano entrati solo una volta (o due?), fino alle ginocchia. “L’aria di mare fa bene, ma… Lignano è una località di turismo di massa. E si deve camminare a lungo nell’acqua bassa per poter nuotare. E quella maledetta sabbia, dappertutto. E a Grado non è meglio!”
A Klara non nominai neppure Gradac, la sua Zara era sicuramente più grande e più bella! “Perché vai tanto lontano?”, solo questo dissi, anche se sulla punta della lingua avevo un’altra domanda: ma Zara e il mare non erano forse abbastanza belli?
“Sai, Valentina, visto che lo chiedi così apertamente, ti risponderò nello stesso modo!” (Come componeva abilmente le frasi, come se avesse vent’anni più di me!) “Noi andiamo in Canada…”, e qui esitò. “Ti dirò perché, ma prima dimmi se sai che cosa ha mio padre in testa?”
Davvero, mi aveva lasciata sbalordita. Completamente.
“Mio padre in testa ha… Pensieri!”
“Pensieri?”, scoppiai a ridere, forte. Klara non si offese. “Ridi, ridi…”, disse tranquillamente. Risi di nuovo. “Ma che cosa aveva? I pensieri vivono nella testa, e dove se no? Non vivono in un pollaio!”, aprii la bocca per dire questo. Mi bloccò il suo sguardo, e il suo viso, lentigginoso, che non sorrideva?
“Eccoti un pensiero di mio padre: quando la gente impazzisce, bisogna fare le valigie…”
Non sapevo che cosa significasse impazzire. È quando uno è stupido, e ignorante? E le valigie hanno paura di quelle persone? Noi non abbiamo valigie, solo grandi borse da viaggio. La mamma le riempie quando andiamo in vacanza. Ma dissi solo: “Che gente?”
“Tu sei davvero ignorante!”, mi sgridò. “Ma chiedi a tuo padre, forse anche lui ha pensieri in testa…”
“Mah, Klara però parla forse di certi pensieri particolari?”, pensai.
“Tuo papà ha pensieri in testa o no?”, disse con alterigia, ostinatamente decisa a insistere con quella domanda. Con un rapido gesto gettò la sua cuffia a terra e, fissando le nubi dalle quali era iniziata a cadere una neve sottile come farina, allargò le mani senza preoccuparsi di stare testa nuda. In silenzio, mi chinai e le porsi la cuffia. Era azzurra o verde?
“Prendila tu, ma puoi anche buttarla via. Là, al di là dell’Oceano, ci sono cuffie più belle…”, disse. “E i pensieri di tuo padre?”
“No!”, gridai, “mio padre non ha pensieri in testa, noi non andremo da nessuna parte!”
“Sì che andrete!”, disse a un tratto sottovoce, e abbassò la testa come afflitta, fissando la neve che copriva il terreno. “Tu resterai senza monopattino, così come io sono rimasta senza la mia bicicletta!” Sul suo viso e i suoi capelli si fermavano i fiocchi di neve, da un momento all’altro sempre più grandi. “Rossa, rossa come una fragola!”
“No! Non voglio, perché dovrei restare senza monopattino!”
“Perché? Tu davvero non sai niente”, mi rimproverò di nuovo. “Perché? Perché anche da voi scoppierà! Ah, quando scoppia, per i misti non c’è posto…”
“Chi sono i misti?”, ma non glielo chiesi, anche se non capivo assolutamente di che cosa parlasse. Poi riprese, vantandosi: “In Canada le scuole sono grandi, più belle di tutte quelle qui. Appena arriviamo là, mi iscriveranno in prima classe!”
“Anche me, mi iscriveranno a scuola!”, esclamai
Guardandomi come se non credesse alle mie parole, chiese a voce bassissima: “Qui?”
“Certo! Mamma dice che sarà non appena i giacinti fanno capolino da sotto la neve…” Ma Klara non sapeva cosa fossero i giacinti. “Ah, così!”, disse quando glielo spiegai. E continuò: “Quel fiore in Canada ha sicuramente un nome più bello…”
La neve cadeva sempre più fitta. I fiocchi volavano nella mia bocca aperta per lo sconcerto anche a causa dei giacinti, quelli canadesi, che erano più belli dei nostri. Poi lei aggiunse, senza nascondere l’orgoglio: “Io non solo so contare fino a venti, ma so anche che cosa sono house, window e door, e perfino come si dice neve in inglese… Snow…”
Se qualcuno leggesse tutto questo, che cosa penserebbe? Che i bambini si ricordano così chiaramente di tutto, proprio di tutto?
“È impossibile!”, protesterebbe quel qualcuno.
“Sì, hai ragione….”
“Sì”, così risponderei al lettore, “è davvero impossibile…” E che cosa è possibile? Solo immaginarsi un lontano incontro, e fra i vuoti della memoria e le parole perdute delle conversazioni reali, e poi sognate, inserire delle aggiunte? Ricordare sogni, è qualcos’altro? E così pure il sogno che torna da noi, anche quando ci siamo già identificati con il mondo degli adulti. Così io anche adesso, in realtà solo a volte, sogno una grande insegna accanto a una lunga strada, e davanti c’è un personaggio della mia prima infanzia. Sull’insegna c’è la scritta Canada, che in sogno si trasforma in Ka Nadi1.
E quel personaggio? È Klara, e accanto a lei a un tratto appare una bicicletta, rossa come una fragola. “Lo ammetto, mi sono ingannata! Tuo padre in testa aveva un pensiero strano, ma reale…”
E lei? Agita la mano, in segno di saluto. E anch’io. Esiste un dittafono per i sogni?
Note:
1. Verso la speranza.
(traduzione: Alice Parmeggiani)