Tijana M. Djerković ha scelto, come molti altri prima di lei, di scrivere i suoi racconti in una lingua che non è la sua lingua madre, in questo caso l'italiano. Il suo ultimo lavoro è intitolato "La regina dei cornetti salati", editrice Besa
I suoi libri li scrive in italiano la scrittrice serba Tijana M. Djerković, figlia del poeta serbo Momčilo Djerković. Sarebbe molto interessante scoprire cosa spinge molti scrittori, grandissimi scrittori, a immergersi nel profondo della loro anima tirando fuori parole, frasi, opere in una lingua diversa da quella madre. Quanti illustri esempi, da Conrad a Nabokov a Kundera. Ma sono solo la punta dell’iceberg di una tradizione che coinvolge molti autori, con risultati il più delle volte sorprendenti. Come nel caso, appunto, di Tijana M. Djerković.
È da poche settimane uscito il suo nuovo libro “La regina dei cornetti salati”, edito da Besa, una casa editrice leccese molto attenta alla produzione letteraria dei paesi dell’oltre Adriatico, forse la più attiva su questo fronte e, pertanto, va ascritta tra le più meritevoli per la sua opera di diffusione e conoscenza presso il pubblico italiano di una letteratura come quella dei Balcani tanto vicina quanto sconosciuta.
Tijana M. Djerković aveva già pubblicato per i tipi di Besa, nel 2018, una riedizione di un libro straordinario per l’intensità e la passione con cui è stato scritto. Parlo de “Il cielo sopra Belgrado”, un diario, sostanzialmente, dei terribili 78 giorni che, a partire dal 24 marzo 1999, videro la capitale serba bombardata da aerei Nato con la complicità dell’Italia guidata allora dal governo D’Alema.
Tijana, che vive in Italia dal 1987, si sentì toccata nel vivo della sua carne. A Belgrado aveva i suoi genitori, la sua famiglia, i suoi amici. La Serbia è la sua terra e la sua identità. A quel punto non può far altro che partire da Roma dove vive per raggiungere Belgrado, prima con una troupe di giornalisti dei quali era consulente, quindi, dopo un primo ritorno in Italia, con mezzi di fortuna, più volte, per stare vicina a genitori, al padre che perderà strada facendo.
Il libro è un racconto vivo e drammatico, che con molta forza si oppone al pregiudizio che vedeva, e continua non di rado a vedere, nei serbi gli unici cattivi di quella guerra, i nemici da annientare. “Ne usciva un’immagine generale di mostri di violenza sessuale e non, barbari per eccellenza, astuti e furbi quanto crudeli nello squartare bambini, violentare donne, mutilare il mutilabile. C’è stato un breve, brevissimo periodo in cui mi sentivo in imbarazzo a dire di essere serba (…) Era per il fatto di essere guardata col sospetto o con una curiosità esagerata, a volte perfino volgare, come se fossi una marziana, un uovo sano caduto fuori dalla cesta delle uova marce. ‘Una serba!? Lei?’”.
“Il cielo sopra Belgrado” è un libro valido ancora oggi, nonostante sia la cronaca, seppur molto personale, ma forse proprio per questo, perché non generica, bensì intessuta di sentimenti, emozioni, sangue, di un evento dal quale ci separano 21 anni. Ma sono libri come questi che restano a futura memoria.
Con “La regina dei cornetti salati” il timbro della voce dell’autrice è, invece, più pacato, lo sguardo sulle cose e sulle persone o, meglio, personaggi, si fa largo e profondo nello stesso tempo. Le storie che si dipanano in nove racconti hanno tutte un loro grado di irrealtà, tanto sono, paradossalmente, reali. L’autrice investiga nelle pieghe dell’animo umano mettendo il lettore di fronte a vite comuni, tutte colte dietro la superficie della normalità. Ma che si rivelano, nell’evolversi del racconto, spaventosamente drammatiche oppure magiche oppure assurde, sospese tutte come sono in una dimensione subliminale che lascia spesso il lettore smarrito, di fronte a figure di fantasmi che si fanno persone e viceversa. Sicuramente l’ambientazione belgradese contribuisce all’effetto, che a tratti riporta gli echi di un Aleksandar Tišma, soprattutto quelli del suo libro “Pratiche d’amore”, per quegli spostamenti tra realtà e assurdo che lo caratterizzano.
Si veda ad esempio, della Dierković, un racconto come “L’amore della giovinezza” dove un uomo si confessa davanti a una ispettrice di polizia. “Non l’ho mai picchiata. Mai!” prende inizio il racconto dal quale, naturalmente, il protagonista fa emergere il presunto grande amore che caratterizzava la sua vita con Lara, una giovane alla quale era legato in un rapporto estremamente contaminato dalla gelosia che ogni volta lo faceva esplodere in reazioni di incontrollata violenza, ma da lui, di fronte all’ispettrice di polizia, sempre minimizzata, quasi senza rilevanza. Si nutre, verso l’uomo, un filo di incredulità e ci si aspetta, naturalmente, il cadavere. E lo abbiamo. Ma la doppia dimensione, quella schizofrenica che si nasconde dietro il comportamento del buono, del comprensivo, dell’innamorato, prevale solo nel finale quando l’uomo nega, pur di fronte all’evidenza, l’identità del cadavere, per cui non riconosce in esso la sua Lara.
“La supplico, signora Ispettrice, la supplico dottore, toglietemi questo mostro davanti agli occhi, lo rimettano nella cella frigorifera!” o, addirittura, suggerisce di riportarla sotto al ponte dove l’hanno trovata, per concludere, della serie ci è o ci fa, con l’ingiunzione ai suoi interlocutori di “smettere con le ricerche di Lara” sparita chissà dove, chissà con chi, e contro la volontà di lei. “Vi supplico” insiste “Senza di lei, la mia vita non vale nulla. Niente. Non bado a spese. Posso pagare tutto. Questa non è Lara. Non è lei. No! Lo posso firmare? Si! Mi dia il foglio! Ecco. Fatto.”
Il tutto in una trasfigurazione frutto di una pazzia che l’autrice riesce a trattare con una sapienza narrativa che conserva nella pagina stilisticamente solida la cifra di un mestiere che rende irrilevante il suo dna linguistico. Dovremmo, piuttosto, essere grati a Tijana M. Dierković per l’omaggio di cui ci onora scrivendo direttamente nella nostra lingua, lei serba, libri così letterariamente raffinati.