Bambino addormentato - Matteo Bagnoli/flickr

Una famiglia mista, mamma serba e papà italiano, ed un'infanzia trascorsa tra due mondi, ora fissati, per bambini e anche adulti, sulle pagine di un libro. Un'intervista

12/10/2017 -  Daniela Giordano

Un ponte tra culture, la trasposizione su carta di due vite: una mamma, serba, che racconta alla figlia, italiana, spezzoni del suo passato, che parla della sua patria con amore smisurato, che narra quasi recitando meravigliose storie con protagonisti i personaggi della sua infanzia. E una figlia, che immagazzina, ascolta, elabora e arricchisce; assorbe i dettagli, li fa suoi, si emoziona, si sente parte di quelle terre e di quelle narrazioni, non vuole che vengano dimenticati mai e decide di immortalarli nelle pagine di un libro. Abbiamo incontrato Elena Chiusole, autrice di "Tutti russano nella stessa lingua ".

Il libro è una raccolta di racconti, ve n'è uno che è il suo preferito?

Sono tutti legati alla mia vita passata e recente. Uno di quelli che interseca meglio quello che è stato il mio passato a quello che è il mio presente è sicuramente Gianni e Pinotta. Il racconto parla di due cagnolini ed è molto semplice. Parla di una famiglia, che da unita si separa e della nascita di una nuova. I cagnolini diventano i simboli di questa nuova unione e di come le persone possano vivere comunque insieme accettando quello che è stato e godendosi il nuovo amore e la nuova esperienza.

Poi, il racconto Zuca, parla di un cagnolino giallo che resta nel villaggio serbo d’origine del suo padroncino, insieme alla nonna e agli amici, mentre il bambino deve lasciare tutto per venire in Italia. Scrivendo questo racconto mi sono commossa, perché rende l’idea dell’ingiustizia. L’ultimo che vorrei segnalare è Senigallo il gallo, che parla di Senigallia e del mio compagno. Senigallia è una città che mi è entrata nel cuore da subito e che lui ha condiviso con me. Questo racconto l’ho scritto di getto, in dieci minuti e non l’ho più toccato.

Tutti i miei racconti nascondono una forte base auto-biografica. Sono adatti per un pubblico dai dieci anni in su. Nonostante l’apparente semplicità, che un titolo come La casetta di riccio Ciccio ad esempio può trasmettere, il tema di base della casa, come patria, sentita come appartenenza, richiede una certa maturità.

Proprio su questo punto, il tema della guerra e della fuga come può essere compreso da un pubblico di bambini?

Il tema della guerra di per sé non viene affrontato, almeno non sotto il profilo ‘classico’, ma piuttosto nei termini delle conseguenze della guerra, dunque l’esodo ed il modo in cui le persone convivono quotidianamente con questa difficile situazione.

In un racconto, Quell’aprile a Belgrado, la protagonista è ispirata da una mia amica, Sandra, che pur essendo benestante, ha vissuto momenti traumatici in cui, qui in Italia, piangeva spesso per il semplice fatto che è faticosa la lontananza dal proprio paese ed il trapianto forzoso in un posto di cui non conosci la lingua e le abitudini.

Nonostante l’accoglienza e l’aiuto, il Trentino, dove vivo, resta una regione piuttosto fredda. Inoltre, la sola etichetta di straniero mette in evidenza la diversità, che può portare allo sviluppo del pregiudizio. Dunque, quello che mi interessava era il tema della guerra come motore che porta a vivere delle persone in un altro posto e quindi costringe a lasciare la famiglia, gli amici, la scuola; in giovane età questo significa fare i conti con uno strappo netto.

Penso che avrei fatto fatica a sciogliere questo tipo di legami ed infatti tutte le persone che conosco che sono in questa situazione tornano regolarmente a casa. Compresa mia madre, che ormai vive qua da 35 anni, ma torna regolarmente a ‘casa sua’, che per lei è e resta Belgrado, nonostante abbia passato più tempo della sua vita in Italia.

Restando sul tema della diversità, la generazione di sua figlia, alla quale il libro si indirizza, è più portata ad accettare il diverso, rispetto alle generazioni passate?

La generazione di mia figlia, molto semplicemente, ha a che fare con i social media, con Internet. Perciò sarà sicuramente maggiormente incline alla comunicazione e più abituata a vedere attorno a sé stranieri. Questo libro l’ho pensato come un ponte tra mia madre e mia figlia; da una parte mia madre che ha vissuto sulla propria pelle il trauma del cambiamento e dell’esodo, dall’altra mia figlia che ne subisce le conseguenze, poiché è il frutto dell’amore tra mia madre, serba, e mio padre, italiano e poi tra me ed il mio compagno. Dunque un incrocio di culture ed idee diverse e spero, anche portandola in Serbia, che lei non dimentichi le sue origini. Vorrei mostrarle le foto dei suoi bisnonni, spiegarle come mia nonna faceva la gibanica, piuttosto che le palacinke. Quello che ho scritto nel libro è che il diverso, inteso come straniero, fa paura, ma se ne cogli la bontà indubbiamente ti aiuta a crescere e ad aprire la mente.

La sua condizione di ‘mezzosangue’, come lei scrive ne Il tema, l’ha aiutata nella sua crescita personale?

Il termine ‘mezzosangue’ l’ho preso in prestito da Harry Potter, perché racchiude benissimo il senso di questa ‘condizione’. I miei genitori spesso battibeccavano in casa per differenze culturali: mio padre è un trentino un po' rigido e fisso sulle sue idee, mentre mia madre è una persona socievole ed ospitale. In Serbia, l’ospitalità è molto importante e avere gente per casa anche ad orari un po’ particolari non è un problema. Questo cozza un po’ con la riservatezza trentina.

Sono cresciuta da una parte in una casa piena di amichetti, a cui mia madre raccontava le storie serbe tradotte in italiano e dall’altra con la famiglia di mio padre, più rigida e impostata. Anche la lingua è stata un ostacolo da superare; mia madre ha provato a farci parlare serbo in casa, ma mio padre non lo parlava molto e alla fine, né io, né mio fratello siamo madrelingua in serbo. Mia madre ha il terrore che possiamo rinnegare le nostre origini e con mia figlia parla sempre la sua lingua natia.

In conclusione, che cosa le piacerebbe che restasse ai lettori di questo libro?

Innanzitutto, vorrei che rimanesse l’idea del disegno. Mi piacerebbe che i lettori associassero le illustrazioni di Eliseo Franchini, che è un artista che reputo meraviglioso, al testo. Quindi l’immagine del cagnolino giallo abbandonato dal padroncino, piuttosto che la maestra cattiva che spaventa il bambino. In sostanza vorrei che rimanesse l’immagine e quindi l’emozione, perché questo aiuta a immedesimarsi e a fissare un’idea.