Risiera di San Sabba a Trieste - © LorenzoPeg/Shutterstock

Risiera di San Sabba a Trieste - © LorenzoPeg/Shutterstock

Due storie e due indagini si intrecciano nell'ultimo libro di Ilaria Tuti. Un padre e una figlia, entrambi medici, cercano la verità su due morti avvenute sullo sfondo della Seconda guerra mondiale e dell'occupazione nazista della Venezia Giulia. Una recensione

24/12/2024 -  Diego Zandel

Due storie si alternano nell’ultimo, intenso romanzo “Risplendo non brucio” (Longanesi) della friulana Ilaria Tuti, nota al grande pubblico per i suoi avvincenti noir con protagonista Teresa Battaglia, la profiler della polizia, interpretata in Tv da Elena Sofia Ricci nella serie tratta dal romanzo omonimo dell’autrice “Ninfa dormiente” e altri.

Apparentemente lontane, la vicinanza tra le due storie di “Risplendo non brucio” è data, innanzitutto, dall’epoca, quella della seconda guerra mondiale, anno 1944; dai protagonisti delle stesse. Da una parte il padre, Johann Maria Adami, detenuto a Dachau e qui trasferito, grazie alle sue doti di medico e biologo al castello di Kransberg, con il compito di scoprire la verità dietro la morte di un soldato, ucciso o forse suicidatosi.

Dall'altra, a Trieste, la figlia Ada, anch’essa medico, in un territorio occupato dai tedeschi dopo aver annesso l’intera Venezia Giulia, Istria e Fiume comprese, al Terzo Reich come Adriatisches Küstenland. Trieste dotata in quel periodo dell’unico campo di sterminio fuori dai confini della Germania nella Risiera di San Sabba (citati a riguardo i versi del noto poeta triestino Roberto Dedenaro che aprono un capitolo sulla Risiera di San Sabba: “La fabbrica di riso ci ha ingannato/invece di sfamarci ci ha mangiato.”)

Padre e figlia indagheranno ciascuno su un diverso delitto, il primo su ordine dello stesso Hitler, ansioso di conoscere la verità di quella morte, la seconda per volontà propria, spinta dal fatto che la vittima, Margherita Gregori, era una sua amica e il padre di questa si era rifiutato di denunciare l’omicidio per il rischio di sollevare un vespaio che si sarebbe scatenato contro la famiglia nobile. Nelle sue parole Margherita, elusa la sorveglianza domestica, “si era messa da sola nelle mani del carnefice”.

Ada vuole scoprire chi è il carnefice, e s’impegna, correndo molti rischi. Il principale è dato proprio dal suo legame famigliare, per essere figlia di un noto oppositore del nazismo. In questo senso, la vediamo però nutrire un sordo risentimento verso il padre che, e a causa delle sue idee e conseguente deportazione l’aveva lasciata sola con un bambino appena nato, peraltro senza più accanto il suo uomo e padre del bambino stesso per aver scelto, anch’egli, la strada della Resistenza.

Ma, di fronte al corpo dilaniato e pieno di morsi di Margherita, abbandonato sulla neve sporca del suo sangue, Ada non esita ad affrontare ogni pericolo pur di mettersi “sulle tracce di una bestia che di umano aveva solo le fattezze e probabilmente un’esistenza pacifica dietro la quale celare la sua vera natura.”

Entrambi, padre da una parte e figlia dall’altra, saranno aiutati o, comunque, compresi, da due ufficiali tedeschi. Il padre da un suo ex allievo, Veil Seidel, divenuto SS, e la figlia da un ufficiale medico, Erik Lange che, nonostante lavorasse alla Risiera come medico necroscopico sui corpi dei cadaveri bruciati vivi dei prigionieri, di fronte allo spirito ippocratico della donna, sembra riconoscere il suo stesso giuramento.

Intanto, il padre, arrivato al castello di Kransberg, si trova sempre più coinvolto nella sua indagine, non senza cercare vie di fuga che lo sottraggano – seppur inutilmente – al controllo dei carcerieri, approfittando dell’apparente tolleranza verso alcune sue libertà di movimento, una delle quali lo porterà anche a conoscere un gruppo di prigionieri inglesi detenuti nel castello e altri pericolosi misteri.

Ovviamente, il suo pensiero va spesso alla figlia, ai suoi dissidi con lei per aver messo la famiglia in secondo piano, mentre Ada, da parte sua, ha fissa la preoccupazione per il figlio, lasciato per giornate intere nelle mani di una nutrice, con il timore crescente di un affido ad altri e la sua definitiva perdita.

Non a caso si troverà a pensare: “Altri seni a cui attaccarsi, altre braccia a sorreggerlo, un’altra pelle da riconoscere. Ada avrebbe mai visto i suoi primi passi? Sarebbe stata presente alla sua prima parola? Sarebbe stata “mamma”? E a chi l’avrebbe indirizzata? L’idea di perderlo e non ritrovarlo più, tuttavia, l’atterriva.”

Ma, al di là delle due avvincenti indagini, anch’esse degne di una Teresa Battaglia, a cui l’autrice ci ha abituato nei suoi romanzi precedenti, “Risplendo non brucio”, si distingue anche per la ricostruzione degli ambienti e dei caratteri e per lo spaccato storico, ben descritto nelle sue luci e nelle sue ombre.

Ciò vale sia per quanto concerne il teatro del castello di Kranberg, sia lo scenario storico più complesso relativo al confine orientale dove, accanto all’orrore della Risiera, del male assoluto rappresentato dall’occupazione tedesca e ai meriti della Resistenza, incarnata comunque dalla figura del padre e da altri esempi di abnegazione nella lotta ai nazisti, l’autrice non si tira indietro nel raccontare anche le ombre, a loro volta non esenti di orrore, da parte dei partigiani titini.