Un trabaccolo da trasporto esposto presso il Museo della marineria di Cesenatico (Arosio Stefano, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)

Un trabaccolo da trasporto esposto presso il Museo della marineria di Cesenatico (Arosio Stefano, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)

Ispirata dagli scritti adriatici di Fabio Fiori una nostra lettrice ci racconta la storia di Sergio Marzocchi e della sua barca a vela "Tibilini III"

12/05/2021 -  Valeria Marzocchi Giometti

“Per chi é nato sul mare, come dirlo

che comincia dove finisce la città...”

Ha inizio con queste parole una bella poesia del nostro concittadino di Pesaro Gianni D’Elia, e sembra che parli di chi davanti al mare c’è nato sul serio.

Era in un calmo giorno di fine estate del lontano ’36, che nasceva in Viale Trieste, proprio davanti al mare, Sergio Marzocchi detto “Tibillo” dal nome dalla sua barca a vela “Tibilini III” .

L’Adriatico lasciò un’impronta così duratura nella sua esperienza di vita da segnarne anche il percorso intellettuale.

Cominciò presto a desiderare una barca Sergio e, per dirla col Manzoni “tanto tuonò che piovve”, riuscì infatti ad avere una deriva e far pratica di vela fu entusiasmante in quegli anni dell’adolescenza. Quando arrivava maggio le assenze al liceo erano tante, troppe, e la famiglia viveva male questa passione per il mare. Frequentando il porto conobbe pescatori e marinai. Se era cattivo tempo li trovava nella bottega del barbiere in fondo alla Calata Caio Duilio, non lontano dalla fontana detta “della Fjietta” dal fiume Foglia, deviato in passato per costruire il porto canale, o nella piccola osteria vicino all’angolo con Viale della Vittoria.

Il Tibillo III in Dalmazia a Premuda nel 2019

Il Tibillo III in Dalmazia a Premuda nel 2019

Fra i pescatori uno, "El chiusott", “il chioggiotto”, aveva una lancetta “Mafalda”, la sua ”signorina Mafalda” come la chiamava, e con il tempo buono usciva la sera, spinto dalla valle, per pescare qualcosa per casa, diceva, ma era per il piacere di stare in mare che lasciava il porto.

I marinai che in gioventù avevano attraversato l’Adriatico sui trabaccoli raccontavano volentieri e sempre con nostalgia la loro vita a bordo, rischiosa e dura. I reumatismi avevano indurito le articolazioni delle loro mani e dei loro piedi e si muovevano con cautela, e se capitava di fermarli lungo il molo ti accorgevi che non scendevano mia dalla bicicletta, quelle ruote erano ormai i loro piedi.

Toni Marigelli, vecchio marinaio sui trabaccoli, che poeta della parola e della pentola era! Un giorno Tibillo, ancora adolescente, gli chiese cosa dovesse fare per imparare ad andar per mare. Toni rispose: “Ac vo la passion”, ci vuole la passione!. Tutta condensata in queste quattro parole la sua scuola di vela. E fu abbastanza.

Tibillo la “passion” l’aveva.

Toni era stato marinaio sui trabaccoli, ricordava tutti i porti e le insenature della Dalmazia dove aveva sostato per i carichi da portare a Pesaro o dove aveva trovato riparo quando il tempo si faceva scuro; sapeva a che vento erano scoperti, se il fondo teneva bene l’ancora oppure no, se erano o meno pescosi. Disse anche di aver cucinato le oloturie e che non erano tanto cattive, solo un po' dure! Tanti episodi di queste vite trascorse lontano da casa furono raccolti da Tibillo con il desiderio di farne un libro.

Sempre in quegli anni, era il dopo guerra, un gruppo di pochi appassionati di vela diede vita al Club nautico di Pesaro. Erano tanto pochi che le loro barche si contavano sulle dita di una mano. Barche fantasiose le loro, messe insieme più dalla passione che dal cantiere. Su una di queste, di proprietà di Nino Gennari, Tibillo, accolto come ospite, cioè mozzo, fece la sua prima traversata. Era il 1959 e la crociera lo portò all’Incoronata. Fu una folgorazione.

Se per lui andar per mare sulla nostra costa era già così bello, vedere che a una distanza di 60–70 miglia dal porto la costa dalmata custodiva insenature, fiordi, vallette odorate di macchia mediterranea, isolotti nudi e disabitati, paesi bianchi di pietra d’Istria con l’impronta solenne del Leone di S. Marco, gli chiarirono la sua vocazione: andar per mare era quello che desiderava.

Fatalità volle che un’eredità inattesa, da lui convertita in imbarcazione piuttosto che in un dignitoso studio d’avvocato, gli consentì di farsi costruire dal Cantiere Carlini di Rimini una barca a vela tutta sua e per quei tempi un vero gioiello, quasi un lusso. Lunghezza mt. 9,90 ft. larghezza 2.20, un pozzetto prudente, timone a barra, due gavoni, uno a prua e uno in poppa, in coperta due stralli di prua per due fiocchi, un alloggiamento per la bussola, grande, marca Sestrel, e un attacco per il LOG, la pompa di sentina e una bitta per la cima dell’ancora che se ci sbattevi un piede te lo rovinavi per un anno! Sotto coperta fasciame a vista, interni in mogano, strumenti rari ma essenziali: un orologio, un barometro. Tavolo da carteggio ampio, un fornellino a gas Primus, 4 cuccette, e niente WC. Candelieri, winc e maniche a vento d’ottone, albero in mogano che scendeva sotto coperta fino al paiolo. Tutti gli accessori e gli strumenti inglesi.

Un sogno questa barca, il sogno di Sergio.

Con il “Valeria” di Torquato Gennari, il dragone “Zara” dei Sala era fra le barche più ammirate di quegli anni nel porto di Pesaro. Varata al principio degli anni “60 la sua “Tibilini III” radunò intorno a lui tanti amici desiderosi di prendere il largo insieme al suo “paron”. Molti furono i volontari, pochi quelli che terminarono la crociera, e fra questi i più, con i loro cupi racconti della dura vita di bordo imposta da Tibillo, alimentarono una sorta di leggenda intorno all’uomo di mare. A bordo non si cucinava ma si beveva solo tè, quando si navigava qualche zolletta di zucchero aiutava a tener su corpo e spirito e l’acqua dei serbatoi era più preziosa di quella di Lourdes, guai a sprecarla! E il motore ausiliario, un Seagle da 6 cavalli, infilato nel gavone di poppa non doveva essere usato.

Prese allora a navigare da solo e per non dar pensiero alla famiglia, che ben conosceva se pur da terra, gli imprevedibili umori di questo nostro Adriatico, salpava di notte senza farne parola con nessuno e quando finalmente raggiungeva un porto dell’altra costa telefonava a casa: “Sono qui, tutto bene” e via a navigare.

Il più era fatto.

Terminati con dovuta calma gli studi universitari, accettato un incarico alla cattedra di Antropologia Culturale all’Università di Urbino, si ritrovò anche ammogliato e col tempo, padre di due figli. Non pensò di tenere a casa sposa e prole quando sentiva che l’ora di salpare l’ancora era arrivata. Tutti con lui, imbarcati sullo stesso legno a prendere vento e bonacce. Furono anni belli, ricchi di incontri e d’amicizie che con il tempo si consolidarono. Riuscendo a far coincidere i suoi interessi culturali con la passione per mare cominciò a studiare il mondo dei marinai così ricco di tradizioni, facendolo emergere da una sorta di silenziosa emarginazione in cui, in quel tempo, sembrava dovesse rimanere. La conoscenza della costa dalmata e dei suoi abitanti gli consentì di ipotizzare una comunanza di cultura con quella dei nostri porti, e raccolse una consistente documentazione in proposito facendone materia di studio.

Furono anni di ricerca e di entusiasmo. Le interviste ai marinai della nostra costa lo convincevano sempre più della fondatezza delle sue ipotesi e andar per mare in quei periodi significò anche studiare le tradizioni della “comunità delle rive” per dirla con la dottoressa M.Lucia De Nicolò.

Le linee di una ricerca in questo campo si chiarirono e un suo primo lavoro sull’iconografia delle vele “Colori e simboli delle vele adriatiche" fu pubblicato nel 1983.

L’impegno di proseguire e approfondire i temi che lo interessarono passò tuttavia ad altri studiosi. Sergio Marzocchi moriva in un calmo giorno d’aprile del 1988.

Fra il materiale da lui raccolto in quegli anni c’è uno scritto anonimo di un marinaio di San Benedetto. Recita così:

 

“Ho trascorso una vita sul mare

Vedendo migliaia di bufere

Ne mi sono mai arreso, anzi ridevo

E senza paura la mia casa ripigliavo.

Senza un acciacco, senza un malanno.

Ora sono vecchio e sto male

Ma il mio pensiero è la sul mare.

Mi basta solo poter muovere un dito

Per camminare, anche con un bastone

E la mattina mi alzo presto

Per andare a vedere il mare

Che è in tempesta

E quando, amici cari, sarò morto

Non voglio andare al camposanto ma al porto.”