Arriva in libreria “E’ morto Tito”, raccolta di racconti di Marica Bodrožić, scrittrice tedesca di origini croate. Gli anni ottanta dell’entroterra dalmata, tra natura possente e religiosità popolare. E anticipi, muti, di ciò che sarà. Una scrittura che è poesia narrata, a tratti fantastica. Nostra recensione
“In paese da giorni non si parlava d'altro. Il televisore era incandescente, e il nonno non capiva perché mai un uomo appena morto e già sottoterra corresse di qua e di là sullo schermo”. Inizia così “E' morto Tito”, raccolta di racconti della giovane scrittrice tedesca di origini dalmate Marica Bodrožić. E già da queste prime frasi si possono cogliere alcune caratteristiche ricorrenti nel libro. Lo sguardo anzitutto, quel misto di innocenza infantile e distacco sognante che dà un tono lieve, quasi ironico al narrare. Il titolo potrebbe far pensare ad un lavoro sulla figura di Josip Broz, o dove comunque la sua presenza sia incombente. Invece l'unico dei ventiquattro brevi racconti ad accennare qualcosa di vagamente politico è il primo, da cui viene il titolo del libro. Tutto il restante materiale è narrazione di vita, ritratti di personaggi semplici o curiosi nella Dalmazia degli anni ottanta, a tratti scrittura fantastica che sconfina nella poesia. Parole come Jugoslavia, Croazia o socialismo neppure compaiono.
Storie di paese dunque, tanto che più di Tito risulta protagonista il nonno. E' lui a comparire più spesso nei racconti della Bodrožić bambina, o della controfigura narrante, ed è con la sua morte che si chiude il libro. Preludio per un passaggio all'età adulta dell'autrice – “gli anni lontani dell'oblio di sé erano ormai perduti” – come forse la morte di Tito lo è stata per il suo paese. Insieme al nonno compaiono altre figure familiari a partire dai genitori, seppure spesso lontani per lavoro, e poi zio Joseph l'emigrante, zia Aurora che perse due figli, Rado e Ana promessi sposi traditi o Lore la cantautrice. Una piccola spoon river dell'entroterra dalmata, una cronaca di villaggio fatta con gli occhi curiosi e ingenui di una bambina, che scopre il mondo duro e arretrato dei contadini.
Anche questo si può cogliere dall'incipit del libro: siamo negli anni ottanta del ventesimo secolo, in un paese europeo alle soglie dell'era digitale, eppure c'è ancora un mondo della terra che fatica a capire la televisione. Le persone sono in lotta con la natura aspra circostante, le estati afose, gli inverni gelidi, le serpi che uccidono. La campagna della Dalmazia interna è arida, sassosa, pretende fatica e silenzio. “Le diventavano sempre più chiare le leggi di quel paese maledetto e il fatto che quella terra di nessuno si sarebbe definitivamente impossessata di lei se non si fosse decisa ad andarsene”. Il mare non è lontano, qualcuno si imbarca e lo attraversa. Altri partono per lavorare all'estero, i gastarbeiter che mantenevano parte dell’allora Jugoslavia con i soldi spediti ai familiari. Ma insieme la impoverivano di menti e braccia proprio nelle sue regioni più povere.
Così dalla poetica impoliticità dei racconti, il lettore può cogliere comunque dati profondi su quello che è stato uno dei retroterra per la catastrofe degli anni novanta. La povertà materiale e culturale delle periferie rurali, il senso di solitudine autistica, la pulsione all’urbicidio di cui ha scritto Bogdan Bogdanović. Quell’invidia rabbiosa che porta gli abitanti del villaggio a devastare i campi del signor Kovinjski in uno dei racconti, L’amante dei gigli. “In quella notte, chi era a favore dei fiori era contro il paese e la sua gente, e questo tutti quegli uomini in preda all’ira non potevano tollerarlo”.
Un’altra caratteristica che emerge è la pervasiva religiosità popolare. La Bodrožić bambina la respira dentro e fuori casa, ora con curiosità e leggerezza – “Vivevo con tranquillità quelle ore silenziose e sature di incenso” – ora invece con timore. Un cattolicesimo duro e radicato, che il quarantennio socialista non ha piegato. Una religiosità dove chi sopravvive al morso di un serpente è bollato come maligno, dove cioè si mescolano riti sacri e credenze popolari, controllo sociale e invocazioni per il raccolto. A farci caso, siamo negli stessi anni e nelle stesse zone in cui inizia il fenomeno di Medjugorje.
E infine, ma è più corretto dire soprattutto, la natura. I racconti sono immersi nelle descrizioni di fiori, alberi, insetti, nuvole, pioggia… Gli elementi materiali e animali sono forse i protagonisti principali accanto all’autrice bambina che va scoprendo il mondo. Nostalgia di una naturalità perduta, ma ancor più spunti per fantasticare sulla realtà, o per immaginare altri mondi fantastici. “Si scatenarono dei temporali e il vento non risparmiò più nulla. Al suo passaggio lasciò tutto cambiato. Caddi, la mia pelle escoriata attirava gli insetti. Cominciai a immaginare di possedere più corpi […]. Avevo nostalgia dei pezzi del mio corpo volati via”.
La scrittura a volte si fa onirica, difficile da seguire perché abbraccia il registro poetico. Le parole si fanno suoni, colori di un racconto che avanza per suggestioni. Complesso, tortuoso e creativo lo definisce Claudio Magris nell’introduzione, dove rende omaggio alla capacità dell’autrice di usare la lingua tedesca pur mantenendo una luce dalmata. Altrettanta capacità è servita credo alla traduttrice, per questo esordio italiano della Bodrožić merito della casa editrice Zandonai, sempre attenta ai fermenti mitteleuropei.
Una narrazione lirica, si potrebbe dire. Guidata dallo sguardo benevolo, quasi di rimpianto, per il passato. Ma insieme attraversata, sottotraccia, dagli echi di una tragedia in arrivo. Forse l’approssimarsi dell’adolescenza, forse l’emigrazione in Germania, forse altro. “Una nostalgia, qualcosa che, in case straniere, non passa mai”.