Si è concluso lo scorso tre dicembre il Torino Film Festival. I film dell'est Europa in concorso, presentati da Nicola Falcinella
Si è chiuso nei giorni scorsi il 40° Torino Film Festival. Nel ricco programma spiccava, reduce dal concorso del Locarno Film Festival, “Fairytale – La fiaba” del russo Aleksandr Sokurov che sarà in sala dal 22 dicembre. Il grande regista di “Faust” e “L’arca russa”, “persona non grata” nella Russia di Putin, rilegge ancora una volta in maniera originale la storia europea del ‘900 con una fiaba nera che pone Hitler, Mussolini, Stalin e Churchill (e pure Napoleone per alcuni frangenti) in un grande limbo. Un film da vedere che offre numerosi spunti di riflessione.
Nel concorso lungometraggi il premio per il miglior film è andato all’americano “Palm Trees and Power Lines” di Jamie Dack, classico film da Sundance dove infatti aveva vinto due premi importanti.
Su 12 titoli in competizione, ben tre film provengono dall’est Europa, cui si aggiunge la coproduzione Italia – Ucraina “La lunga corsa – Jailbird” di Andrea Magnani (regista del curioso e divertente “Easy – Un viaggio facile facile” del 2017)
Il Premio Achille Valdata assegnato dalla giuria dei lettori di “Torinosette” quale “miglior film del concorso lungometraggi internazionali” è andato all’ucraino “Pamfir” di Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, che ha debuttato a Cannes e ha già ricevuto numerosi riconoscimenti nel giro dei festival. È carnevale quando Leonid, soprannominato Pamfir, torna al villaggio nell’Ucraina occidentale dall’estero dove lavorava. Con un passato burrascoso alle spalle – aveva cavato un occhio al padre durante un litigio e aveva a lungo praticato il contrabbando - cerca di mettersi a posto scavando un pozzo per il prete, lui che si era da tempo allontanato dalla chiesa, al contrario della molto devota moglie Olena. Il figlio Nazar, che vorrebbero proseguisse gli studi per avere la possibilità di cambiare vita, è a sua volta tormentato e un giorno incendia la chiesa. Per risolvere la cosa e salvare la famiglia, Pamfir è costretto a tornare al passato e mettere in gioco tutto. Sukholytkyy-Sobchuk si distingue fin dalla prima inquadratura (Pamfir si fa trovare mascherato dal figlio) per lo stile fatto di lunghi piani sequenza elaborati e per la commistione di realismo, grottesco e folklore. Questo risulta un po’ di troppo, il quadro di un luogo arretrato, in un misto di religione bigotta e riti pagani, non convince, mentre l’uomo disposto a tutto per la sua famiglia (e con poca ragionevolezza) è fin troppo visto. Forse il regista vuol dire che non si può sfuggire a un destino criminale o comunque di illegalità, resta il fatto che lo stile muscolare del film sarà adatto alle dinamiche che rappresenta, ma sembra prevalere su tutto quanto.
Anche in “Man and Dog” del romeno Stefan Constantinescu c’è un uomo, più o meno quarantenne, che torna a casa dall’estero. È Doru che parte dalla Svezia durante la pandemia (è uno dei pochi film ad avere mostrato il dover rientrare a casa e le difficoltà di spostarsi nel periodo dei picchi del contagio) per tornare a casa. Passa dalla madre, che si è presa l’aggressivo cane Amza, poi inizia a sospettare un tradimento da parte della moglie Nico. Da qui piano piano inizia a chiedere e indagare, precipitando nell’ossessione. Constantinescu mette insieme tanti elementi – il rientro, il lavoro, la gelosia, la pandemia, il rapporto con il cane – per descrivere lo sbandamento di Doru con uno stile sicuro, pienamente nel solco della scuola romena. L’inizio con un flash-forward non aiuta molto a entrare nel film e sembra un vezzo di troppo, ma il proseguo è sufficientemente efficace per far dimenticare i difetti.
Funziona a fasi alterne “Christina – Kristina” di Nikola Spasić con una prostituta transessuale belgradese che riceve a casa i suoi clienti. Dopo l’iniziale seduta di psicoterapia, la protagonista incontra sulla porta un uomo che curiosamente si ripresenterà di nuovo sul suo percorso. Intanto visita una signora in campagna per una vendita, esce con l’amica, si reca in un monastero nello Srem. Anche qui non manca lo stile e la ricerca anche pittorica, soprattutto negli interni, sebbene il punto sia l’essere trans a Belgrado, il rapporto difficile con la famiglia e la società, la fatica a staccarsi dall’identità precedente sempre pronta a riaffacciarsi.
Fuori concorso invece “Illyricum” di Simon Bogocević Narath, una coproduzione Croazia/ Slovenia/Italia/Kosovo/Bosnia che lascia qualche interrogativo. Siamo nel 37 avanti Cristo, i legionari romani attraversano i Balcani, compiono scorribande, ma siamo ancora prima della conquista di Ottaviano. Un gruppo di soldati prende con sé il giovane Volscus, della tribù dei Liburni, per aiutarli nel compito di riscuotere le tasse, potendo comunicare con i locali nella loro lingua. Ne nasce un viaggio picaresco (filmato in tante località suggestive, anche in Italia nel Tarvisiano, che sono tra le cose migliori della pellicola) tra i vari gruppo di illiri, disprezzati e considerati barbari dai romani prima di accorgersi che non sono così diversi. Il grande sforzo anche nel ricostruire le lingue parlate e nella ricostruzione non sembrano del tutto ripagati nel risultato.