Giancarlo Giannini al 42° Torino Film Festival 2024 © sbonsi/Shutterstock

Giancarlo Giannini al 42° Torino Film Festival 2024 © sbonsi/Shutterstock

Un'edizione segnata dalle star e dal tema della maternità. Quest'anno al Torino Film Festival l'Europa orientale ha raccolto pochi premi, ma non ha smesso di mostrare idee interessanti e segni di vitalità

05/12/2024 -  Nicola Falcinella

Stavolta non c’è stata la vittoria per il cinema dell’Ucraina al Torino Film Festival. Dopo il premio lo scorso anno a “La Palisiada” di Philip Sotnychenko, che vinse parecchi premi internazionali e fu poi candidato all’Oscar, c’è stata la menzione speciale della giuria per “Dissident” di Stanislav Gurenko e Andrii Al’ferov, uno dei più originali del concorso, molto curato ed elaborato formalmente.

La 42° edizione del Festival (22-30 novembre), caratterizzata dall’arrivo di gran numero di star di grande nome (da Sharon Stone ad Angelina Jolie) che hanno messo in ombra i film, ha presentato 16 lungometraggi in competizione.

Temi ricorrenti la maternità e la genitorialità, visti secondo punti di vista diversi, in Paesi e culture diversi. La selezione di opere prime e seconde includeva opere anche interessanti, ma senza nulla che spiccasse, con linguaggi abbastanza tradizionali senza particolari sperimentazioni.

I film sulla maternità hanno quasi monopolizzato anche il palmarès, partendo dal vincitore, il belga “Holy Rosita” di Wannes Destoop, e dal Premio speciale della giuria al tedesco “Vena” di Chiara Fleischhacker, anche premio Fipresci della stampa.

Premio per la sceneggiatura al tunisino “L’aguille” di Abdelhamid Bouchnack, che ha sommato i riconoscimenti delle giurie collaterali, con il Premio Interfedi, il Premio Achille Valdata e il premio della Scuola Holden.

A questi si aggiunge la menzione del tradizionale riconoscimento Occhiali di Gandhi, che è andato al palestinese “From Ground Zero”, presentato nella sezione non competitiva Zibaldone. Premi per l’interpretazione al cast femminile del danese “Madame Ida” di Jacob Moller, ovvero Flora Ofelia Hofmann Lindahl, Christine Albeck Børge, Karen-Lise Mynster, e a River Gallo per l’americano “Ponyboi” di Esteban Arango.

“Dissident” è ambientato dopo la fine del disgelo dell’epoca Krusciov, partendo da una storia vera. Oleh è rilasciato grazie a un’amnistia e torna a casa dalla moglie sarta Vilena. È un reduce che aveva combattuto durante la Guerra mondiale, sia contro i nazisti sia nell’esercito insurrezionale per l’indipendenza ucraina dall’Urss, che si ritrova a dover riprendere il suo posto in una società diversa da come l’aveva lasciata.

Un film dai colori smorzati che ricostruisce un momento tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70 guardando ai decenni precedenti. Il film riflette anche sull’essenza della dissidenza (e su questo dialoga con un’opera molto diversa come “Limònov – The Ballad” di Kirill Serebrennikov) si può leggere come un antefatto di ciò cui stiamo assistendo oggi, andando alle radici della cultura ucraina, dalla lingua che in quel momento era sempre meno usata ai preti della chiesa greco cattolica che si nascondevano facendo gli operai.

Senza premi è rimasto il polacco “Under The Grey Sky” di Mara Tamkovich, che parla della repressione degli oppositori da parte del presidente bielorusso Lukashenko dopo le elezioni truccate del 2020.

È la vicenda della giornalista televisiva Lena che, con l’operatrice Olya, fa una diretta per mostrare le proteste di piazza dopo l’arresto del dimostrante Roman. Con un’irruzione nel palazzo in cui sono appostate, la polizia arresta le due, incarcerate preventivamente in attesa del processo. Intanto il marito Ilya cerca un’avvocata che possa difenderla.

Sebbene Lena sia convinta che qualcosa possa cambiare e che “la notte è più scura prima dell’alba”, arriva una condanna con l’accusa di aver organizzato le manifestazioni, ma un’incriminazione più grave, per alto tradimento, sta per arrivare. L’uomo si interroga sul da farsi, come provare a stare accanto alla coniuge, mentre le minacce arrivano anche a lui e la loro abitazione perquisita e messa a soqquadro.

E ci si domanda cosa sia il caso di fare, tra continuare a lottare e coltivare la speranza o emigrare all’estero. Una dura critica al governo della Bielorussia, con uno spirito da istant movie ma efficace.

È quasi una favola l’americano “The Black Sea” di Derrick B. Harden e Crystal Moselle ambientato in Bulgaria e anche questo presentato nel concorso internazionale. Khalid molla il lavoro a Brooklyn per recarsi a Sozopol, sul Mar Nero in Bulgaria, contattato in internet da Raya.

Questa aveva saputo da una veggente che solo un uomo nero le può evitare una cosa brutta, ma muore poco prima dell’arrivo del potenziale salvatore. Khalid trova solo il figlio di lei, Georgi che non vuole saperne nulla e scoprirà essere un boss del paese. Senza soldi e senza passaporto, l’uomo chiede aiuto a Ina, che ha un’agenzia viaggi ed è la ex di Georgi.

Costretto a sostare in un luogo che offre poche opportunità, aguzzerà l’ingegno e la capacità di cavarsela in situazioni sfavorevoli. Così il protagonista apre un po’ per caso il bar Blue Flowers e si fa apprezzare per la sua musica hip hop.

Il film è la seconda collaborazione tra Moselle (conosciuta per “The Wolfpack”) e il rapper Harden, visto come attore nella serie “Betty” della stessa Moselle. Se la storia progressivamente si perde, è proprio Harden a reggere la pellicola con la sua energia, il carisma e le doti musicali. Tra le sue battute sferzanti da ricordare la considerazione che “I bulgari hanno più problemi dei neri”.

Nel concorso documentari premio a “Le retour du projectionniste” di Orkhan Aghazadeh, girato sulle montagne tra Iran e Azerbaigian. E niente riconoscimenti ai due sloveni in lizza, “Woman of God” di Maja Prettner e “The Silence of Life” di Nina Blažin, che hanno messo comunque in evidenza la vivacità del settore in Slovenia.

“The Silence of Life” è un ritratto della nota attrice e giornalista (per molti anni firma del quotidiano Delo) Manca Kosir e una riflessione sulla malattia e la morte. La regista ha filmato per circa cinque anni la protagonista, che nel frattempo ha scoperto di avere un tumore, restituendo il valore e la profondità di una persona lucida anche nello spiegare come la morte è parte della vita.

L’altro motore del film di Blažin è l’elaborazione del lutto per la scomparsa del padre, che la porta a filmare in parallelo la madre. Ne risulta un film denso, toccante e curato, ma non troppo angosciante, con qualche punto di contatto con “In ultimo” di Mario Balsamo, anche questo presentato nel concorso del TFF, tutto tra i malati terminali di un hospice, dal punto di vista però del medico che li assiste.

In “The Silence of Life” figurano anche brevi estratti di “Breza” di Ante Babaja (in cui Kosir interpretava, al fianco di Bata Živojinović, la ragazza che moriva) e il corto “Sonce” di Karpo Godina.

Presentato Fuori concorso “Territory” di Alex Galan con l’attore serbo Darko Perić, che era pure giurato per il concorso cortometraggi. Perić è sé stesso in viaggio in Kirghizistan a cercare il leopardo delle nevi in una valle remota con i cacciatori e pastori locali.

Un film che per certi versi ricorda “La pantera delle nevi”, con alcune considerazioni e riflessioni interessanti da parte del protagonista, alla ricerca delle origini e del rapporto con natura selvaggia che abbiamo perso. Gli scenari sono magnifici, valli incontaminate che si spera non vengano raggiunte dagli uomini che si spera, almeno per una volta, si accontentino di vederle sullo schermo.