Una rassegna su tutti i premi assegnati alla 34ma edizione del Trieste Film Festival - la vetrina del cinema del sud-est Europa - conclusasi lo scorso 28 gennaio
Giovani di origine curda protagoniste al 34° Trieste Film Festival, che si è confermata la vetrina privilegiata sul cinema dell’Europa centro-orientale. Il Premio Trieste per il miglior lungometraggio è andato all’austriaco “Sonne” di Kurdwin Ayub, già premiata come migliore opera prima al Festival di Berlino 2022. Due menzioni speciali sono andate al croato “Sigurno mesto – Safe Place” di Juraj Lerotić, già premiato a Locarno, e al greco “Black Stone” di Spiros Jacovides, quest’ultimo anche premio del pubblico.
Tra le anteprime in concorso spicca “Beautiful Helen – Mishvenieri Elene” del georgiano George Ovashvili, già in passato vincitore con “Corn Island”, duro dramma sullo sfondo delle guerre in Caucaso. Qui l’atmosfera è molto diversa dai suoi precedenti lavori e per certi versi ricorda “What Do We See When We Look at the Sky?” del connazionale Alexandre Koberidze, uno dei più bei film del 2021.
Ovashvili racconta di Helen, che sta per compiere 25 anni e torna a Tiblisi dopo un trascorso negli Stati Uniti. La giovane vorrebbe fare l’attrice, ma le persone intorno a lei sono tutte pessimiste, la madre, la nonna, l’amica che litiga con il fidanzato. Cammina per la città, spesso lungo il fiume, cerca lavoro, incontra il regista Gabo e inizia a fargli da assistente, ma la narrazione comincia a divagare, spezzettarsi e sovrapporsi. “Beautiful Helen” è un film di specchi in apparenza leggero, sull’amore, le scelte della vita e le origini. Una pellicola un po’ esistenziale, si direbbe alla francese, che lascia a interrogarsi su cosa sia vero e cosa sia immaginato o proiezione.
Senza premi pure lo sloveno “Zbudi me – Wake me” di Marko Šantić, presentato sempre nel concorso lungometraggi. Ricoverato dopo essere stato aggredito e aver perso in parte la memoria, il trentenne Rok esce dall’ospedale, atteso dalla fidanzata Rina. Il suo comportamento è strano e si fa accompagnare dalla giovane a Jesenice, dove trova la madre e il fratello Jure, che non vede da tempo. Cerca di ricostruire i ricordi, anche passando in visita all’amico Damir detto Damci, che lavora in una scuola e fa discorsi nazionalisti e fascisti contro i bosniaci e gli immigrati. Di notte fanno murales come un tempo, ma vengono sorpresi. Nel centro culturale si imbatte nel direttore Selim, in carrozzina dopo un incidente, e stanno proiettando il film “Grbavica – Il segreto di Esma”: il centro deve proiettare solo film bosniaci e parlano anche di “No Man’s Land”. Šantić mette in scena un processo di ricostruzione della memoria e della coscienza, utilizzando tanto la macchina a mano che crea inquietudine e sfruttando l’ambientazione invernale che contribuisce a esasperare il freddo tra comunità diverse e parti che si contrastano. Il film è ben recitato (ci sono Jure Henigman, Timon Sturbej e Natasa Barbara Gracner), tiene bene la tensione e forse resta un po’ aperto, ma d’altra parte non potrebbe essere diversamente.
Il Premio Alpe Adria Cinema al miglior documentario è stato assegnato all’olandese “Scene With My Father” di Biserka Šuran. La regista trova nella casa di famiglia in Croazia una valigia con le lettere che sua madre inviava a suo padre negli anni ‘70, mentre in casa in Olanda una scatola contiene le risposte di suo padre. Da qui Biserka Šuran prende spunto per intervistare, dentro ambienti démodé ricostruiti, il genitore Vinko che racconta la loro storia e come lasciarono la Croazia, e Parenzo, per l’Olanda nell’imminenza della guerra, nel settembre 1991, quando Biserka aveva un paio d’anni. Il padre croato e la madre olandese si erano conosciuti sul mare Adriatico negli anni ‘70 e si erano innamorati. La relazione epistolare era cresciuta fino alla decisione di sposarsi e vivere in Jugoslavia: anni sereni fino alla dissoluzione del paese e il prefigurarsi delle guerre nazionalistiche e la decisione repentina di andarsene. La regista segue il filo dei ricordi paterni, debitamente sollecitati, e utilizza tante immagini d’archivio (il parco di Plitvice, Mostar, la cerimonia per gli 87 anni di Tito e la giornata della gioventù, la morte di Tito) alternandole a molta fiction (i viaggi in auto utilizzando i fondali come nei film anni ‘50, la stazione del treno) fusa con il documentario in maniera singolare. Si evidenzia l’artificiosità, la messa in scena, ma è interessante il lavoro di regia: rende universale la storia personale, la estrae (più che astrarre) dal tempo e la fa diventare la storia di tanti emigranti, di tante persone con una doppia identità e le difficoltà che ne conseguono. L’emigrazione con le ferite e le cicatrici che lascia. Si tratta di un bel dialogo tra figlia e padre, in senso ampio, in un misto di ricordi e scoperte, ed è da notare che tra loro parlano in olandese, sebbene Vinko non lo parlasse al momento del trasferimento. Il genitore oggi incolpa i capi delle repubbliche che vollero le guerre perché convinti di vincere e ha maturato il rimpianto per non essere rimasto a fare qualcosa per il suo paese, oltre che di non aver capito tante cose nel rapporto con le figlie. “Scene With My Father” si fa apprezzare per le sue tante sfaccettature e contiene anche i racconti degli zii rimasti in Croazia, che offrono un altro punto di vista. Un film che ha qualcosa del cinema di Theo Angelopoulos e non solo per le suggestioni legate alla valigia sugli scogli del mare.
Il nostro Premio Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa al miglior documentario in concorso è andato al polacco “The Hamlet Syndrome” di Elwira Niewiera e Piotr Rosolowski, vincitore pure del premio del pubblico. Cinque attori e una regista mettono in scena “Amleto” un paio di mesi prima della guerra, c’è il teatro, con le sollecitazioni del testo shakespeariano nel quale si inseriscono la realtà e il vissuto personale. La piccola compagnia è un microcosmo della società e il teatro è una terapia per superare i traumi, divenendo una terapia di gruppo e individuale: sul palco si arriva davvero allo psicodramma. Ciascuno porta le proprie esperienze dopo le proteste di Maidan o l’aver combattuto in Ucraina orientale. Tante le domande, per esempio come si ama la patria? Si deve combattere o ci sono altri modi? I modi di usare la bandiera, e quindi i simboli nel teatro e nella rappresentazione. Ancora il peso delle scelte, delle responsabilità, il pensiero della morte, questioni ancora più attuali dopo di allora. Tra prove, improvvisazioni e monologhi le storie personali si intrecciano con gli aspetti sociali e c’è Rodion che è omosessuale e, incontra la madre al parco, ricorda come aveva reagito alla notizia.
Il Premio al miglior cortometraggio in concorso è andato a “Plima” di Eva Vidan, produzione Croazia - Stati Uniti, con menzioni speciali al romeno “Where No Ships Go” di Vlad Buzaianu e all’albanese “Sheets” di Evi Gjoni, anche premio del pubblico alla pari con il greco “Not Tomorrow” di Amerissa Basta. Il Premio CEI - Central European Initiative al film che meglio interpreta la realtà contemporanea e il dialogo tra le culture è andato a “Love Is Not An Orange” di Otilia Babara (Belgio, Paesi Bassi, Moldavia, Francia, 2022) sulle donne (e i loro figli) che dalla Moldavia si sono spostate per lavorare in Europa occidentale dagli anni ‘90 in poi. Il Premio Corso Salani è stato assegnato al documentario “Il cerchio” di Sophie Chiarello, ovvero come i bambini di una scuola romana vedono il mondo degli adulti. Il Premio Cineuropa al miglior lungometraggio in concorso a “Butterfly Vision” di Maksym Nakonechnyi, coproduzione Croazia, Repubblica Ceca, Svezia, Ucraina, e Laser Film Award alla co-produzione croato-italiano- slovena “Fiume o morte!” di Igor Bezinović. Il Premio Sncci per il Miglior film della critica 2022 è andato all’iraniano “Gli orsi non esistono” di Jafar Panahi, mentre il Miglior film della critica italiano 2022 a “Piccolo corpo” della triestina Laura Samani. Il Premio Eastern Star 2023 a “una personalità del mondo del cinema che con il suo lavoro ha contribuito a gettare un ponte tra l’Europa dell’est e dell’ovest”, è andato a un grande del cinema polacco e non solo come Krzysztof Zanussi, che ha presentato il suo nuovo “Perfect Number”. Tra melodramma e apologo morale, un film sull’amore, la morte e la vita eterna, fatto di dilemmi e riflessioni sul Decalogo (e parecchi riferimenti e omaggi al capolavoro di Krzysztof Kieslowski): di fatto l’ego è contro il secondo comandamento. Zanussi, sulle musiche di Bach, tiene la macchina da presa quasi sempre in movimento a cercare qualcosa insieme allo spettatore. Uno speciale Eastern Star Award è andato all’applauditissimo Zdenek Zeman. Il Premio Cinema Warrior “all’ostinazione, il sacrificio e la follia di quei “guerrieri che lavorano e combattono dietro le quinte per il cinema”, è stato attribuito alla trasmissione di RaiTre Fuori orario.
Da evidenziare nel concorso documentari “Non-Aligned: Scenes from the Labudović Reels” della belgradese Mila Turajlić, affermatasi con “Cinema Komunisto” come una delle maggiori documentariste dell’area, capace di trovare negli archivi immagini e storie del periodo comunista che dialogano con l’oggi. In questo caso parte dai girati dell’operatore di Tito, Stevan Labudović, assunto nel 1948 come assistente operatore al Filmske Novosti e diventato uomo di fiducia del Presidente. In particolare ci sono le immagini del vertice dei Paesi non allineati tenutosi a Belgrado nel settembre 1961, con i vertici di 25 Paesi. Uno dei momenti più gloriosi in quasi mezzo secolo della Federazione, a racchiuderne ambizione e spirito. Nell’archivio del Filmske Novosti ci sono 36 rulli di immagini relativi a quei giorni e Turajlić se li è fatta commentare dallo stesso operatore, filmato prima della morte, avvenuta nel 2017. Il Museo della Jugoslavia e la nave Galeb, oggi semiabbandonata nel porto di Fiume, sono due delle tappe più simboliche. con cui viaggio in mezzo mondo con Tito, l’imbarcazione fu, partendo dal viaggio in India alla fine del 1954, strumento di diplomazia e, con il suo destino di decadenza e abbandono, è oggi simbolo e metafora di quel momento storico. L’operatore fu testimone unico di un’epoca e di un sogno (e forse illusione), di un mondo che c’è stato solo per un momento: “Labudović non era solo spettatore, ma protagonista”, si dice nel film, sottolineando il suo contributo alla propaganda, convinto di ciò che faceva e del ruolo e della missione di Tito. Assumere un ruolo centrale sulla scena mondiale per la Jugoslavia e i Paesi non allineati significava anche far sentire la propria voce e quindi mostrare le proprie immagini: diventava cruciale sostenere i movimenti anti-coloniali, mostrare situazioni della guerra d’Algeria (dove Labudović costruì rapporti umani fortissimi) e riprendere dal proprio punto di vista l’assemblea dell’Onu a New York. La ricostruzione di quest’ultimo evento, combinando bobine senza sonoro con il sonoro trovato negli archivi di Radio Belgrado, è uno dei momenti più riusciti del film.
Un altro documentario appartenente al filone, così vasto tanto che è ormai difficile tenere il conto, su chi ha lasciato la Jugoslavia per le guerre e le sue conseguenze è il croato “Dezerteri – Deserters” di Damir Markovina. In apertura c’è una ripresa dell’abbattimento del ponte di Mostar. C’è quindi una vecchia lettera scritta da Nina, che era rimasta nella città divisa, mentre quasi tutti i loro compagni e amici se n’erano andati e alcuni uccisi. Il documentario è fatto tutto di fotografie del tempo della guerra e dei mesi precedenti, di cartoline, qualche filmato amatoriale di allora e immagini di Mostar oggi, tutto con le parole estratte dalle lettere scambiate tra studenti del ginnasio di Mostar nel 1992/1993: chi è andato in Svezia, chi in Turchia, chi in Italia e chi, come il regista, in Croazia. Un film di sentimenti anche contrastanti, sul senso della perdita, del perdersi, sul lasciare un luogo e sul restare soli.