Il duce degli ustascia croati Ante Pavelić è vissuto a lungo in Italia, e in particolare a Siena, attraversando fasi diverse nel rapporto con il regime di Mussolini - dall'attentato ad Alessandro I allo scoppio della Seconda guerra mondiale - determinate soprattutto dalle priorità strategiche italiane nei confronti della Jugoslavia
È il 9 ottobre 1934 quando un terrorista macedone - assoldato dagli ustascia croati - uccide a Marsiglia il re jugoslavo Alessandro I. Lo scandalo internazionale è enorme e il leader degli ustascia Ante Pavelić, che da diversi mesi risiede a Torino, viene arrestato e imprigionato alle Nuove.
Che ci fa un terrorista croato in Italia, quali sono i suoi scopi e perché trova l’appoggio del regime fascista? È una storia lunga, che vale la pena di ripercorrere rapidamente.
Dopo la Prima guerra mondiale l’Italia ha annesso territori multiculturali come l’Istria, Fiume e persino Zara, sulla costa dalmata. Tuttavia il nazionalismo italiano persegue un’ulteriore espansione territoriale, rivendicando l’intera Dalmazia e le isole dell’Adriatico orientale. Il fascismo accentua tale politica aggressiva identificando il regno jugoslavo, fondato nel 1918, come principale avversario strategico. Perciò il regime stabilisce contatti con tutte le forze nazionaliste interne alla Jugoslavia per favorirne le attività e indebolire il paese.
Terroristi macedoni, separatisti kosovari, legittimisti montenegrini, nazionalisti croati, tutti trovano appoggio economico e materiale in Italia. Pavelić rappresenta la corrente più estrema del nazionalismo croato, quella che propugna la pulizia etnica contro serbi ed ebrei, come afferma fin dagli anni Venti, ed è disposta a sacrificare la Dalmazia pur di costituire uno stato indipendente con l’aiuto italiano che includa anche tutta la Bosnia Erzegovina. Messo fuori legge e costretto all’esilio, Pavelić fonda così, nel 1929, il suo gruppo terroristico in Italia, gli ustascia appunto.
Ma le cose non vanno come sperava. La reazione internazionale al regicidio del 1934 è immensa, Mussolini è in difficoltà e la carta ustascia viene per il momento accantonata. I circa 400 terroristi che all’epoca si addestravano in Abruzzo, a San Demetrio, vengono confinati a Lipari. Pavelić resta in carcere per un anno e mezzo. È una prigione dorata, per la verità, dotata di ogni comfort, e il leader ustascia ne approfitta per scrivere il suo romanzo La bella bionda, che ha come protagonista la spia croata che ha consegnato le armi all’attentatore di Marsiglia.
Nel giugno 1936 le acque si sono calmate, Pavelić viene scarcerato e confinato a Moncalieri, in una casa di riposo Fiat, ennesima conferma del coinvolgimento, anche in queste operazioni segrete di regime, dell’élite economica italiana. In estate è a Cava dei Tirreni, al mare, finalmente riunito con la famiglia, composta dalla moglie Mara (di lontane origini ebraiche) e tre figli, un maschio e due femmine. Ma in autunno è già a Firenze, dove ha affittato la casa da una donna vedova: Olga Zannoni. Qui riprende i contatti con i membri del partito, cosa che però preoccupa le autorità fasciste. Che infatti lo trasferiscono nuovamente, stavolta a Siena.
A Siena
Siena è senza dubbio la località in Italia dove Pavelić è rimasto più a lungo. Per ben due anni, dall’estate del 1937 alla fine di settembre del 1939, il leader ustascia ha vissuto con la moglie in una villa ancora non identificata, o forse non più esistente, indicata dalle autorità di polizia come “villa Poggiarello 176, fuori porta Romana”. Sono anni sereni, ma politicamente deludenti, per Pavelić. Dopo l’attentato di Marsiglia, l’Italia ha infatti raggiunto un accordo con la Jugoslavia, siglato a Belgrado il 25 marzo 1937.
Artefice del riavvicinamento è Milan Stojadinović, il leader del Partito radicale jugoslavo, “modellato nel contenuto e nella forma sul Partito Nazionale Fascista”, come sostiene nel 1939 il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano. Una clausola segreta del trattato prevede la smobilitazione degli ustascia, che infatti vengono progressivamente confinati a piccoli gruppi in località minori della Sardegna e del sud Italia, e in seguito rimpatriati in buona parte in Jugoslavia.
A Siena per Pavelić è “vietata ogni attività politica ed ogni comunicazione con i suoi fiduciari”. Una squadra di poliziotti esegue il compito di “ininterrotta ed oculata vigilanza con continuo pedinamento”, anche per evitare qualunque “violenza verso la sua persona e la sua famiglia”. Pavelić non è più utile, almeno per il momento, ma resta una pedina importante, e va preservato. L’ispettore Ercole Conti, che fin dal 1929 ha il compito di organizzare, proteggere, ma anche controllare gli ustascia, è in questa fase inflessibile. Nessuno può visitare la villa dei Pavelić senza il suo permesso, ogni contatto è vigilato, la corrispondenza controllata ogni giorno.
Eppure il leader ustascia riesce a mantenere i contatti coi suoi attivisti in varie parti d’Europa. Come? Conti sospetta di tutti, intercetta la corrispondenza della domestica, fa pedinare i religiosi che frequentano la famiglia e persino la moglie Mara, che saltuariamente si reca a Firenze a trovare le figlie in collegio. Durante queste visite, la donna incontra spesso Olga Zannoni, la ex padrona di casa fiorentina con cui ha stabilito un’amicizia. Potrebbe essere proprio lei il tramite? Potrebbe aver imparato il croato, stabilito un rapporto di fiducia con la famiglia, nell’anno di permanenza dei Pavelić a casa sua, al punto da impegnarsi in prima persona per la loro causa, concordare un codice segreto e lavorare per loro? La grande quantità di denaro di cui Pavelić dispone potrebbe aver giocato un ruolo importante, dato che Olga è una giovane vedova disoccupata con una figlia a carico.
Il libro
Formalmente, però, Pavelić si mantiene fedele alle indicazioni ricevute: non conduce attività politica, fa una vita ritirata, e scrive un nuovo libro. Pubblicato a Siena nel 1938 con lo pseudonimo A. S. Mrzlelski il volume si intitola: Errori e orrori. Comunismo e bolscevismo in Russia e nel mondo. Si tratta di un classico pamphlet di propaganda anticomunista, non particolarmente brillante. Serve soprattutto a tranquillizzare i suoi protettori fascisti, sempre ossessionati dal comunismo e pronti a vedere cripto-comunisti ovunque, soprattutto negli stranieri, di cui faticano a riconoscere ideali e obiettivi. Pavelić approfitta quindi per ribadire la sua fedeltà all’Italia e al fascismo: “La terra dei Catoni, dei Ciceroni, dei Cesari doveva esprimere Mussolini”, scrive nell’introduzione. E aggiunge: “Il fascismo deve assurgere all’universalità, deve (…) comparire in ogni paese, ma senza sconfinare, senza essere esportato, in quanto in ogni nazione deve nascere autonomamente come risultato del travaglio dei singoli popoli per la vita”.
È un messaggio chiaro. All’apice del consenso del regime, dopo la vittoria in Etiopia e i successi in Spagna, Pavelić riconosce la superiorità del fascismo, di cui senza dubbio condivide il superomismo patriottico violento e ipernazionalista. Però ribadisce la sua autonomia: ogni popolo deve trovare la sua strada autonoma al fascismo, e lui si rappresenta implicitamente come l’incarnazione della “via croata al fascismo”.
Fine della storia
La situazione internazionale evolve in fretta, e stavolta a favore del nazionalismo croato. Il trattato di Monaco, i Sudeti, poi l’invasione della Cecoslovacchia. Sul fronte balcanico cade il regime di Milan Stojadinović, l’alleato del fascismo, e l’Italia invade l’Albania, allarmando il nuovo governo jugoslavo. Nel settembre del 1939 comincia la guerra mondiale. Ancora più precipitosamente cambiano le priorità. Mussolini scalpita, vuole fare la sua parte, e la Jugoslavia è il nemico numero uno da abbattere, da sempre.
Il 30 settembre Pavelić viene trasferito in città, in una palazzina del centro, e gli viene concessa l’opportunità di riprendere apertamente i contatti coi suoi. Il 23 gennaio 1940 avviene la svolta: Pavelić incontra Ciano a Roma: è il primo riconoscimento ufficiale da parte della diplomazia italiana. In quell’occasione viene riesumato il piano di dieci anni prima: “I croati (…) debbono (…) organizzare una rivoluzione in tutto il paese, occupare Zagabria e formare quivi un governo provvisorio, con Pavelić alla testa. Pavelić deve allora lanciare un appello all’Italia e chiedere un aiuto. L’esercito italiano (…) occuperà (…) il territorio”.
Non si parla ancora di confini, né di date, ma la decisione è stata presa. A febbraio Pavelić si trasferisce a Firenze e crea un vero e proprio centro di comando, circondato dai suoi fedelissimi. Passa ancora un anno, ma nella primavera del 1941 finalmente il suo momento arriva. Quando la Jugoslavia viene attaccata dall’Italia e della Germania, il 6 aprile, Pavelić è già pronto con quel che resta dei suoi ustascia (circa 200) a passare il confine. Le cose non vanno proprio come previsto.
Sono i tedeschi a occupare Zagabria e dichiarare l’indipendenza croata: Pavelić arriva in città quasi una settimana dopo, di notte, di nascosto, con la sua banda di disperati, esuli da dieci anni. Non è più Mussolini a dominare la scena, e Pavelić lo capisce subito. Ceduta la Dalmazia all’Italia e annessa la Bosnia Erzegovina, come previsto, negli anni successivi il governo collaborazionista ustascia di Pavelić farà affidamento soprattutto all’alleanza con la Germania. E approfitterà della sua posizione di forza per condurre la pulizia etnica che aveva programmato da due decenni: l’intera comunità rom e ebraica e almeno 300.000 serbi vengono sterminati nei campi e nei pogrom organizzati dagli ustascia.
Ultranazionalismo, razzismo, uso indiscriminato della violenza: tutti gli ingredienti dell’ideologia fascista si applicano in questo territorio con estrema durezza, segno che Pavelić, nei suoi anni italiani, ha condiviso appieno il pensiero politico fascista.
Evento
Si terrà a Siena, martedì 7 novembre, il convegno Gli ustascia e Ante Pavelić tra Zagabria e Siena. L’incontro, aperto agli studenti e alla cittadinanza, si tiene presso l'Università per Stranieri, nell’aula 5C di Via dei Pispini 1, dalle 10-30 alle 17.00. I relatori e le relatrici, italiani/e e stranieri/e, ricostruiranno la vicenda dei rapporti intercorsi fra il regime fascista e l’organizzazione terroristica ultranazionalista croata degli ustascia, fondata da Ante Pavelić in Italia nel 1929. Sarà un’occasione per analizzare le dinamiche interne e internazionali di quei rapporti, dalla fondazione del movimento fino alla sua tragica presa del potere durante gli anni della Seconda guerra mondiale.