Seguire palmo a palmo la linea dell’ex cortina di ferro, ma tenere lo sguardo e il passo ancorati al presente. Con il progetto "Verde Cortina" il giornalista Matteo Tacconi e il fotografo Ignacio Maria Coccia ci raccontano la nuova Europa. Una delle puntate del loro viaggio presto raccolte in un libro
Gorizia è un altro di quei posti europei di frontiera sui quali la storia s’è scaraventata con grande impeto. Da queste parti ci si massacrò durante la prima guerra mondiale. Il centenario del primo dei due grandi conflitti del ‘900 è alle porte e le autorità locali promuovono itinerari turistici che si sviluppano lungo la linea del fronte italo-austriaco, nel suo tratto più sensibile: quello che segue il corso dell’Isonzo. Nasce in Slovenia, bagna Gorizia, va a morire nell’Adriatico tra Grado e Monfalcone.
Il caso vuole che il fiume conservò anche nella seconda parte del secolo breve, che destinò a Gorizia lo scomodo onere di stare sul crinale tra est e ovest, il suo valore simbolico e strategico. All’epoca della guerra fredda si pensò costantemente alla potenziale invasione degli eserciti dell’est, anche dopo che la Jugoslavia, svincolatasi parzialmente dalla cappa asfissiante del controllo sovietico, iniziò a ciondolare tra est e ovest. Sul lato friulano dell’Isonzo e più a nord, nelle valli scavate dal Natisone, che dell’Isonzo è affluente, c’è tutta una serie di fortini militari, alcuni interrati, altri in superficie. Vennero tirati su a protezione della cosiddetta soglia di Gorizia, l’area di frontiera dove l’Italia avrebbe dovuto respingere o contenere, al peggio, l’offensiva in armi dei paesi comunisti. Alcune di queste strutture, in stato di rovina, restano ancora al loro posto. Molte altre sono state sradicate dopo il 1991, l’anno dell’avvio della disgregazione jugoslava, che qui fa spartiacque tra il prima e il dopo. In questo pezzo di cortina, come in quello austriaco-sloveno, il fuso politico non si misura sull’89.
A Gorizia il simbolo più fotogenico dell’epoca della frontiera è il piazzale della stazione della Transalpina, la linea ferroviaria di epoca asburgica. La facciata dello scalo dà sull’Italia, benché sia gestito dalla Slovenia. Prima ancora lo fu dalla Jugoslavia, dove i quartieri orientali di Gorizia scivolarono dopo la seconda guerra mondiale, andando a costituire il nucleo originario di Nova Gorica, che crebbe in seguito secondo le logiche dell’edilizia socialista: palazzine geometriche e condomini cuboidali, disposti in orizzontale o verticale. Il confine corre in mezzo a questo slargo. A marcarlo, fino al primo maggio del 2004, quando la Slovenia è entrata in Europa, c’era un muricciolo. Fu abbattuto poco prima di quella data.
Dal 2007, quando la Slovenia ha aderito all’area Schengen, da Gorizia a Nova Gorica e da Nova Gorica a Gorizia si circola liberamente. Almeno da questo punto di vista è come se fossero tornate un’unica città. Per il resto, tante sono le differenze. A partire dall’economia. Quella di Nova Gorica, in buona misura, è fondata sul vizio, con una concentrazione significativa di night club e casinò. Spicca, nella seconda categoria, il Perla. È uno dei santuari europei del gioco e capita spesso, lungo le strade italiane del Nordest, di vedere cartelloni pubblicitari che invitano a sconfinare e tentare la fortuna. La crisi economica ha però ridotto il flusso di giocatori italiani. La direzione del Perla si è concentrata di conseguenza sui cinesi. Li fa arrivare con pacchetti che includono viaggio, intrattenimento e servizi di wellness (il Perla organizza spesso concerti e ha sia camere d’albergo che una spa).
L’economia di Gorizia è in fase di decadenza. La città è orfana della frontiera. "Il cambio, le dogane e in particolare i trasporti: il confine dava lavoro a molta gente. A Gorizia avevamo cinquemila autotreni registrati, praticamente uno ogni sei abitanti. Le aziende dovevano avere diversi mezzi, se volevano servire bene la clientela. Le operazioni doganali richiedevano infatti da uno a due giorni. Per un Tir che restava fermo, ce ne doveva essere uno che partiva. Io stesso avevo un’azienda di autotrasporti, fondata da mio padre. L’apertura delle frontiere e l’arrivo della crisi me l’hanno fatta chiudere", racconta Ezio Michlausig.
La dote della frontiera aveva anche altre variabili. "A Gorizia e provincia, una volta, le imprese d’oltre confine che avevano interesse a commerciare con i paesi comunitari aprivano sedi e filiali. L’allargamento europeo ha azzerato questo processo", sostiene ancora Michlausig. C’erano inoltre benefici della zona franca. Zucchero, carni e carburanti avevano prezzi ridotti rispetto al resto del paese. Le caserme, infine. La presenza di militari, motivata dalla guerra fredda, incentivava i consumi e garantiva contratti d’affitto. Tutto questo non c’è più. La demilitarizzazione ha coinvolto Gorizia, come tutto il Friuli Venezia Giulia. Un tempo nella regione c’erano 102 chilometri quadrati di superficie occupata da strutture militari. Attualmente ce ne sono circa quattrocento dismesse, tra caserme, poligoni di tiro, polveriere e basi, secondo la mappatura realizzata dal progetto “Un paese di primule e caserme”, che prenderà a breve la forma di un documentario cinematografico, realizzato dalla casa di produzione Tucker Film.
Ci spostiamo a Trieste, dove sentiamo suonare la stessa musica nostalgica, che fa chiudere gli occhi sull’altra verità delle frontiere aperte. Perché se è vero che hanno bruciato lavoro, è altrettanto evidente che ne hanno creato dell’altro, sgravando le esportazioni dai dazi e favorendo la crescita di diverse aziende: quelle che hanno saputo adeguarsi in fretta al cambiamento.
Visitiamo il valico di Fernetti. Era il più trafficato, tra quelli che sorgono alle spalle della città giuliana, che a differenza di Gorizia ha un retroterra, prima della frontiera. A ridosso del confine e dell’interporto, grosso snodo dei traffici lungo il corridoio europeo che congiunge Gibilterra alla frontiera ungherese-ucraina (in principio doveva unire Lisbona a Kiev), sorge qualche negozietto. In uno di questi, il Chat Jeans, si vendono capi d’abbigliamento. Sostiene Susanna, la titolare: «Quando c’era ancora la dogana si facevano più affari. Venivano un sacco di clienti da tutta la Jugoslavia. Compravano vestiti firmati, che non trovavano nelle loro città. Potevano subito stornare l’Iva, cosa non più possibile, visto che la Slovenia è in Europa. A questo va aggiunto il fatto che ormai, in ognuno dei paesi del Balcani, si trovano tutte le merci e i prodotti che abbiamo qui in Italia. Ho dovuto cambiare strategia, dunque. Ora punto sui prezzi competitivi».
Ma il problema, più che all’Europa che spazza via le frontiere, Susanna lo imputa alla classe politica italiana. Troppi balzelli, troppe tasse sulle imprese, troppe accise sulla benzina. Le cose, dice la negoziante, potranno cambiare grazie a Trieste Libera. È un movimento autonomista, nato nel 2011, che vuole ripristinare il Territorio Libero di Trieste, l’enclave internazionale, a cavallo tra Italia e Jugoslavia, amministrata dall’Onu dal 1947 al 1954, fintanto che la Zona B fu incorporata dalla Jugoslavia e la Zona A, che comprendeva la città di Trieste, tornò sotto la sovranità italiana. Nel programma di Trieste Libera, che riscuote un inaspettato seguito, è previsto il ripristino dell’ordinamento del Territorio Libero, con tanto di zona franca portuale. Il che assicurerebbe un netto taglio delle tasse su merci e petroli. La benzina, sottolinea Susanna, scenderebbe a ottanta centesimi al litro.
Trieste Libera s’incardina nella storia della città, che periodicamente manifesta pulsioni autonomiste, poi puntualmente assorbite. Ma è prima di ogni altra cosa uno specchio dei tempi e di questa rognosa crisi economica, che esaspera e fa un po’ sragionare, benché le rivendicazioni non siano del tutto prive di senso.
Scendiamo in città. Sul lungomare, tra piazza dell’Unità d’Italia e il Canal Grande, fin sulla punta finale del molo Audace, passeggiano coppiette e famiglie. Le auto in sosta nei parcheggi hanno targhe slovene, italiane e austriache. Al largo galleggia qualche mercantile. Questi fotogrammi, insieme ai palazzi in stile asburgico e alle chiese serba, greca e luterana, racchiuse nel raggio di qualche centinaio di metri, fanno scivolare il pensiero verso la Trieste meticcia e di confine, frullato di est e di ovest, patria di Svevo e Joyce. Ma è fin troppo facile, e probabilmente banale, cadere in tentazione. Diciamo più semplicemente che qui, sull’Adriatico, sfuma la cortina e termina anche la verticale verde di parchi e aree naturali che abbiamo costeggiato e attraversato venendo giù dal Baltico.