Manifesto del film "The Truman Show"

Il recente accordo di Washington tra Serbia e Kosovo come riedizione di "The Truman Show", a uso e consumo della campagna elettorale di Donald Trump, con Vučić e Hoti nel ruolo di comparse. Un commento

09/09/2020 -  Paolo Bergamaschi

Chissà se Jim Carey è al corrente che venerdì scorso a Washington è andato in scena il remake del suo più celebre film, "The Truman show". Il set era la Casa Bianca; il protagonista Donald Trump affiancato da due comparse, il presidente serbo Aleksandar Vučić e il primo ministro kosovaro Avdullah Hoti. Contrariamente alla trama originale, però, la vittima del raggiro non era il personaggio principale del film, ma le opinioni pubbliche dei tre paesi che rappresentano.

"The Trump show" si è consumato in poco tempo. Il presidente americano ha definito “storico” l'accordo appena firmato in pompa magna nello studio ovale con gli ospiti, anche se di storico non ha nulla, visto che buona parte del contenuto era già stato concordato fra le parti a gennaio e che la questione più spinosa, il riconoscimento reciproco, non è stata affrontata.

Vučić ha dichiarato ipocritamente di non avere sottoscritto alcun documento con la controparte kosovara, ma solo un accordo bilaterale con gli Stati Uniti pur sapendo che quello siglato, che fa espressamente riferimento al Kosovo, riguarda le relazioni fra Serbia e Kosovo e che la controparte kosovara seduta al lato opposto del tavolo stava firmando, a sua volta, un documento quasi identico.

Hoti parla di passo fondamentale verso la normalizzazione delle relazioni del suo paese con la Serbia, anche se si tratta solo di misure economiche e infrastrutturali che aggiungono poco a quanto negoziato fino ad oggi nell'ambito del dialogo Belgrado-Pristina mediato dall'Unione Europea.

Infine il regista del film, l'inviato speciale americano Richard Grenell, che prima nega di avere cercato di includere il riconoscimento politico nel testo salvo, poi, fare precipitosamente retromarcia di fronte all'evidenza che lo smentisce.

Tutti sapevano di fare parte di una commedia degli inganni inscenata ad uso e consumo della campagna elettorale dell'attuale inquilino della Casa Bianca. Tutti si presentavano all'appuntamento in una posizione di debolezza e vulnerabilità. Donald Trump - secondo i sondaggi - continua a inseguire il suo sfidante Joe Biden e per questo è alla disperata ricerca di trofei da esibire agli elettori anche nel campo delle politica estera.

Vučić ha subito il pesante boicottaggio dell'opposizione alle elezioni di giugno che amputa la legittimità del nuovo parlamento serbo e inficia la credibilità democratica del paese. Hoti presiede un governo che sta in piedi grazie ad un intervento a gamba tesa del presidente Hashim Thaçi e al voto decisivo di un deputato che, a causa di una condanna precedente, probabilmente non poteva votare.

Calato il sipario sul palcoscenico di Washington, si è alzato quello del palcoscenico di Bruxelles dove lunedì si è trasferita parte della troupe per continuare il dialogo Belgrado-Pristina, quello vero, facilitato dall'Ue con il mandato delle Nazioni Unite.

È dal 2011 che le due parti si incontrano sotto la supervisione europea, in particolare dell'Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune. Sono più di trenta gli accordi raggiunti fino ad oggi fra il Kosovo e la Serbia in questo quadro, in buona parte non rispettati o rispettati solo parzialmente. Manca, infatti, un meccanismo di verifica che obblighi i due paesi a mantenere gli impegni sottoscritti.

L'Unione Europea che, sulla carta, avrebbe potuto farlo se ne è irresponsabilmente lavata le mani. Così il dialogo si è trascinato per inerzia a singhiozzo senza una chiara direzione. Non è detto, però, che due dialoghi siano meglio di uno.

A patto che Bruxelles si metta realmente in gioco usando l'unico vero asso che ha nella manica, ovvero la prospettiva di adesione. Da troppo tempo il processo di allargamento dell'Unione è in stand-by. Alcuni dei paesi membri frenano, Francia in testa, in attesa di riforme interne che non arrivano e che, forse, non arriveranno mai.

Cresce, comprensibilmente, la frustrazione nell'opinione pubblica dei paesi tenuti sull'uscio di casa. È giunto il momento di mettere fine alla strategia della finzione.

Da un lato l'Ue deve smettere di tergiversare; dall'altro i politici serbi devono avere il coraggio di dire ai propri cittadini che l'indipendenza del Kosovo è un dato di fatto irreversibile che non si può ignorare e, sul versante kosovaro, la vecchia guardia politica ancora aggrappata al potere deve accettare che esiste una nuova generazione dinamica e competente più preparata e attrezzata a gestire il futuro del paese.