Sergej Viktorovič Lavrov, ministro degli Esteri russo al meeting dell'OSCE nel 2018 (© Joseph Suschitzky/Shutterstock)

Sergej Viktorovič Lavrov, ministro degli Esteri russo al meeting dell'OSCE nel 2018 (© Joseph Suschitzky/Shutterstock)

Nonostante sia per ora poco visibile il ruolo di Mosca nel conflitto in Nagorno Karabakh, per l'autore di questo commento vale sempre un vecchio adagio che riadattato all'attuale situazione suona "Non si muove foglia che Mosca non voglia"

07/10/2020 -  Paolo Bergamaschi

(Originariamente pubblicato dalla Gazzetta di Mantova il 6 settembre 2020)

Per "conflitti congelati" si intendono in gergo diplomatico quelle guerre scoppiate agli inizi degli anni novanta nelle ex repubbliche sovietiche del vecchio continente che si sono trascinate fino ad oggi senza trovare soluzione. Permangono a lungo in uno stato di tregua apparente per poi riaccendersi improvvisamente.

Nel 1991 cessava ufficialmente di esistere l'Urss provocando una scia incontrollata di dichiarazioni di indipendenza. I nuovi stati che hanno occupato lo spazio sovietico hanno, a loro volta, subito processi di contro-secessione da parte di gruppi etnici insoddisfatti della nuova configurazione geopolitica.

"Perché devo essere minoranza nel tuo stato se posso essere maggioranza nel mio?" era il ragionamento ricorrente alla base di improvvisate rivendicazioni indipendentiste. Ne hanno fatto le spese la Moldavia con il conflitto in Transnistria, la Georgia con quelli in Abkhazia e Ossezia del Sud e, più recentemente l'Ucraina con il conflitto nel Donbass.

Anche fra Armenia e Azerbaijan scoppia la guerra con le forze di Yerevan che accorrono in aiuto dei separatisti di etnia armena del Nagorno Karabakh, una regione montuosa in territorio azero. Quello del Nagorno Karabakh, però, pur con una genesi simile presenta due caratteri distintivi rispetto agli altri conflitti congelati: non coinvolge minoranze russofone e interessa anche pezzi di territorio non conteso.

Ho viaggiato spesso in queste lande sperdute, dimenticate dalla comunità internazionale. Per loro vale un vecchio proverbio che ho riadattato: "Non si muove foglia che Mosca non voglia". Nella guerra in Nagorno Karabakh, contrariamente alle altre, non si scorge la mano diretta del Cremlino.

La Russia, però, è il garante della sicurezza dell'Armenia, che ospita un'importante base militare dell'Armata Rossa, ed è allo stesso tempo il principale fornitore di armi dell'Azerbaijan. Nelle gole del Caucaso ci si ammazza con armi russe e si negozia il cessate-il-fuoco con la mediazione russa.

Tutti i conflitti congelati sono funzionali agli interessi di Mosca. Grazie a questi Mosca influenza le scelte delle ex repubbliche sovietiche, che considera ancora parte integrante del proprio spazio vitale, limitandone la sovranità. È una spregiudicata politica di "instabilità controllata". Le entità separatiste che reclamano l'indipendenza si rivelano, nei fatti, pedine mosse dal Cremlino sullo scacchiere della geopolitica.

L'ultima volta che mi sono recato in Nagorno Karabakh è stato nel maggio di due anni fa arrivando dal lato azero dopo un lungo viaggio in auto da Baku. Mi sono spinto fino Cocuq Mancarli, un piccolo villaggio liberato e ricostruito dagli azeri dopo gli scontri dell'aprile del 2016.

A sud si scorgevano le prime propaggini dell'Iran mentre a nord si intravedevano le postazioni armene. Era vivamente sconsigliato muoversi all'aperto a causa del fuoco incrociato dei cecchini. Vivere da quelle parti non è salubre. Un allevatore del posto si rammaricava con me delle vacche al pascolo che saltavano sulle mine antiuomo disseminate nel terreno.

Quella del Nagorno Karabakh non è una guerra di religione anche se l'Armenia cerca di dipingerla come tale per suscitare la solidarietà dell'occidente cristiano. L'Azerbaijan è forse lo stato più laico fra i paesi musulmani. È una guerra fra élite politiche che si sorreggono sull'orgoglio identitario nazionalista.

Formalmente è l'Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa (OSCE) a gestire il processo di pace. Nei fatti, però, è solo Mosca che può sbloccare la situazione. Ci ha provato, senza successo, il ministro degli Esteri russo Lavrov quattro anni fa proponendo come primo passo la restituzione all'Azerbaijan di alcune delle sette province che circondano il Nagorno Karabakh occupate dagli armeni quasi trent'anni fa. Adesso Baku prova a riprendersele con la forza.

Mosca ha mal digerito il cambio di governo insediatosi a Yerevan con la rivoluzione di velluto del 2018. I violenti scontri di questi giorni potrebbero indebolire l'Armenia placando temporaneamente le ansie dell'Azerbaijan alle prese con il crollo irreversibile dei proventi petroliferi che sorreggono la sua economia. Per il Cremlino due piccioni con una fava.