Nella notte tra il 10 e l'11 marzo 1943 la polizia bulgara fece irruzione nelle città di Skopje, Bitola e Stip e arrestò circa 8.000 ebrei macedoni. Era il primo passo della tragica fine di una delle più grandi comunità sefardite nel Regno di Jugoslavia occupato
Prima dell’Olocausto, nella città di Bitola visse una delle più antiche comunità ebraiche sefardite dell’ex Jugoslavia [1], fondata nel XVI secolo, quindi nel periodo ottomano, da ebrei provenienti da Salonicco. Nella città di Salonicco, così come in altre città dell’Impero ottomano, tra cui Istanbul, Sofia, Belgrado e Sarajevo, trovarono rifugio numerosi ebrei espulsi dalla penisola iberica. Nello stesso periodo molti ebrei si stabilirono anche a Skopje, Štip, Kratovo, Veles, Dojran, Prilep, Ohrid e soprattutto a Bitola che, grazie alla presenza di numerose sinagoghe, ben presto divenne il fulcro della vita religiosa e culturale degli ebrei macedoni. I nomi delle due più grandi sinagoghe di Bitola – Portugal e Aragon – ricordavano la terra di origine degli ebrei giunti in Macedonia.
Alla vigilia della Prima guerra balcanica – che portò alla spartizione della Macedonia tra i paesi che sconfissero l’Impero ottomano – Bitola fu un importante centro economico e industriale. La crisi economica scaturita dalle guerre balcaniche spinse gran parte dei settemila ebrei che all’epoca vivevano a Bitola ad emigrare all’estero (soprattutto in Palestina), dopodiché Skopje divenne il principale centro della vita economica e culturale dei sefarditi di Macedonia.
Di questo e di tanti altri aspetti della storia degli ebrei sefarditi nel sud dell’ex Jugoslavia parla un prezioso studio di Krinka Vidaković intitolato “Kultura španskih Jevreja na jugoslovenskom tlu (XVI-XX vek)” [La cultura degli ebrei spagnoli nel territorio jugoslavo (XVI-XX secolo)], pubblicato nel 1986 dalla casa editrice sarajevese Svjetlost nella collana Raskršća [Incroci]. Il libro ebbe due ristampe: nel 1990 l’editore Svjetlost pubblicò un’edizione ampliata, e poi nel 2001 uscì un’altra edizione per i tipi della casa editrice belgradese Narodna knjiga Alfa. Nel suo libro Krinka Vidaković riporta anche alcuni frammenti tratti da un racconto di viaggio di Moric Levi [2] intitolato “Naši s juga. Jevreji u Skoplju” [I nostri del sud. Gli ebrei a Skopje], pubblicato nel 1940.
In questo importante saggio sui costumi e la lingua degli ebrei di Macedonia (che oltre al giudeo-spagnolo o điđo, come lo chiamavano gli ebrei jugoslavi, parlavano anche turco, greco, macedone e serbo-croato), scritto poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale durante un soggiorno a Skopje, Levi riflette sulle nubi tenebrose che incombevano sul suo popolo. “Le melodie giungono alle mie orecchie sia da destra che da sinistra, dai cortili e dai balconi traballanti, dove chissà quando, disteso su un divano, guardando il cielo stellato, celebrava Dio. Sono sommerso dai ricordi dalla mia prima giovinezza. Nell’anno cinquemilasettecento (1940) ci sono ancora i figli di Israele che cantano le romanze andaluse. Anche loro sono consapevoli della sorte degli ebrei, ma sembra che cerchino di scacciare i cupi presentimenti col canto e con nuove speranze”.
A differenza delle altre parti del Regno di Jugoslavia, dove la persecuzione degli ebrei, iniziata subito dopo l’occupazione tedesca nell’aprile 1941, si concluse in tempi brevi, in Macedonia nella prima fase dell’occupazione bulgara la situazione non era così drammatica [3] (Quei pochi ebrei che riuscirono a fuggire dalla Serbia trovarono salvezza proprio in Macedonia, purtroppo solo una salvezza provvisoria). Nonostante il governo filonazista di Sofia, guidato da Bogdan Filov, avesse introdotto leggi antiebraiche, decidendo di privare della cittadinanza bulgara solo gli ebrei, e non tutti gli abitanti dei territori occupati, nel 1941 in Macedonia la situazione degli ebrei non era così grave come in Croazia, Bosnia e Serbia. Gli ebrei erano considerati un elemento estraneo, fu impedito loro di costituire associazioni, di ricoprire incarichi nella pubblica amministrazione e di esercitare attività commerciali. Furono anche costretti a portare una stella gialla sul petto. Nel luglio 1941 fu introdotto un coprifuoco per gli ebrei, accusati di aver sparso voci false ai danni della Bulgaria, una decisione che in un primo momento non fu accompagnata da alcuna misura speciale contro gli ebrei (circa un migliaio, secondo alcune stime recenti) che fuggendo dalla Serbia trovarono rifugio in Macedonia.
Tuttavia, come scrive lo storico Milovan Pisarri , “verso la fine di ottobre, probabilmente su pressione dei nazisti, [il governo bulgaro] ordinò che tutti gli ebrei giunti a Skopje dopo il 6 aprile venissero registrati: di circa 300 ebrei che in quel momento si trovavano nella zona, all’appello risposero 47. Furono arrestati dalla polizia bulgara e consegnati alla Gestapo serba, che li portò subito nel lager di Banjica a Belgrado dove furono fucilati all’inizio di dicembre. Il 26 agosto 1942 avvenne una svolta radicale nella politica antisemita perseguita dalla Bulgaria. Quel giorno, su proposta del governo, fu istituito il Commissariato per la questione ebraica che faceva capo al ministero dell’Interno. L’ideatore del commissariato fu Aleksandar Belev, noto nazionalista e germanofilo. Il 29 dicembre 1941 il ministro Petar Gabrovski mandò Belev in Germania affinché studiasse le leggi tedesche contro gli ebrei. Al ritorno da Berlino Belev giudicò le leggi in vigore in Bulgaria troppo blande e poco efficaci, proponendo quindi che venisse creato un organismo speciale in seno al ministero dell’Interno, denominato appunto Commissariato per la questione ebraica. Ritenendo che il governo non sarebbe stato disposto a stanziare risorse finanziarie straordinarie per il commissariato, Belev propose che a tal fine venissero utilizzati i risparmi degli ebrei bloccati sui loro conti bancari, le risorse della comunità ebraica, nonché le entrate derivanti da un’imposta sui beni degli ebrei introdotta nel luglio dell’anno precedente”.
Quel momento segnò l’inizio di una lunga e sistematica elaborazione di una strategia per la soluzione finale della questione ebraica in Macedonia, un processo che culminò con l’irruzione della polizia bulgara nelle principali città macedoni e con l’arresto di molti ebrei (in tutto 7762) che, insieme a quei trecento fuggiti dalla Serbia, furono consegnati ai nazisti, per poi essere deportati nei campi di concentramento di Treblinka e Auschwitz. Così scomparvero per sempre le antiche famiglie sefardite Aruesti, Bejakar, Kalderon, Hason, Kamhi, Koen, Levi, Ovadija, Pardo, per citarne solo alcune. Solo pochi ebrei di Macedonia riuscirono a sfuggire al fatale destino della deportazione: temendo che stesse per accadere un grande male, alcuni fuggirono in Grecia, altri invece si unirono al movimento partigiano. Tra questi ultimi c’era anche Estreja Ovadija (1922-1944), il cui nome di battaglia era Mara. Dopo la guerra Estreja fu proclamata eroina nazionale della Jugoslavia. Va ricordata anche la partigiana Žamila Angela Isak Kolomonos (1922-2013) che all’età di ottant’anni ha pubblicato un libro sulla sua lotta partigiana e sul destino dei suoi connazionali.
I soldati bulgari utilizzarono le lapidi del cimitero sefardita di Bitola per costruire un campo di addestramento militare, i marciapiedi di alcune strade della città, una piscina... Col tempo il cimitero – che dopo la guerra cadde in uno stato di abbandono, venendo trascurato da una città da cui pian piano scomparivano anche quei pochi ebrei sefarditi sopravvissuti all’Olocausto che non emigrarono in Israele – si trasformò in un prato dove pascolavano le pecore. Nel 2018 il cimitero fu finalmente ricostruito grazie all’impegno di un gruppo di volontari israeliani.
Come in un’infinita battaglia postbellica (e post-Shoah) tra fatti e falsificazioni della storia riguardanti l’Olocausto, tra giustizia e ingiustizia, tra bene e male, la realizzazione del film “The Third Half” [4] che parla della persecuzione degli ebrei (i protagonisti sono un calciatore di nome Kosta, la sua fidanzata Rebecca, di origine ebraica, il padre di Rebecca che si oppone all’intenzione di sua figlia di sposare un giovane di fede ortodossa, e il tecnico Spitz, un ebreo di origine tedesca) suscitò forti reazioni politiche in Bulgaria. A reagire con toni particolarmente duri furono alcuni deputati di destra a cui non piacque il fatto che nel film i soldati bulgari fossero rappresentati come fascisti. Il governo bulgaro, prima ancora di vedere il film, inviò una nota di protesta all’allora Commissario europeo per l’allargamento Štefan Füle non solo a causa di “un’interpretazione errata di alcuni eventi storici delicati”, ma anche per via del fatto che la Repubblica Ceca, paese di origine di Füle, aveva cofinanziato la realizzazione del film. Ma il problema non sta nel cinema, bensì nel fatto che in Bulgaria (così come nell’intera regione dei Balcani) è ancora viva la necessità, del tutto irrazionale, di rivedere e, di conseguenza, edulcorare la storia.
Chiunque conosca anche minimamente la storia della Seconda guerra mondiale sa che il re Boris III di Bulgaria – sotto forte pressione dell’opinione pubblica bulgara che ad un certo punto venne a conoscenza della persecuzione degli ebrei nei territori occupati – si rifiutò di deportare gli ebrei bulgari, motivando tale decisione con la necessità di impiegare gli ebrei nei lavori utili per lo stato. Il re si impegnò inoltre a fornire ad alcune migliaia di ebrei provenienti dall’Ungheria e dalla Slovacchia il visto necessario per entrare in Palestina. In questa impresa gli fu di grande aiuto Mons. Angelo Roncalli (futuro Papa Giovanni XXIII) che all’epoca era nunzio apostolico a Istanbul e intrattenne stretti legami con la corte di Sofia. Il re Boris III già in precedenza aveva mandato su tutte le furie Hitler, rifiutandosi di inviare l’esercito bulgaro sul fronte orientale. Tuttavia, pur disponendo del potere, conferitogli dalla costituzione, di impedire la persecuzione degli ebrei nei territori occupati dalla Bulgaria, il re non fece nulla per salvare i suoi sudditi di origine ebraica che vivevano al di fuori dei confini del vecchio regno bulgaro. Non c’è da stupirsi quindi della protesta delle comunità ebraiche di Belgrado e Zagabria contro la decisione degli organizzatori del Festival del cinema ebraico di Zagabria, tenutosi nel maggio 2010, di insignire un membro della famiglia reale bulgara di una (pseudo) Medaglia dei Giusti, che non c’entra nulla con la medaglia assegnata dal centro Yad Vashem di Gerusalemme.
Nemmeno le altre parti del mondo sono rimaste immuni dalla tendenza a edulcorare i fatti storici (a quanto pare, si vive meglio senza verità), ma le azioni volte ad abbellire il passato, messe in atto nei Balcani, spesso sembrano impareggiabili, tanto che risulta difficile distinguere tra aspetti ascrivibili ad un’immaginazione grottesca che si rovescia facilmente in una strumentalizzazione della storia per fini politici e manifestazioni della malvagità umana basata su una tendenza ideologica che mira alla produzione dell’ignoranza funzionale.
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