In Russia le cosiddette “feste di maggio” si concludono da rito il 9 maggio, il Giorno della Vittoria (quella sulla Germania nazista nella Seconda guerra mondiale). Tuttavia oggi non c'è alcuna vittoria da festeggiare
(Quest'articolo è stato realizzato in collaborazione con Meridiano 13 )
Crimini efferati, distruzioni, violenze, abusi e infine – carichi di quell’eco ferale e vergognosa che proviene, per restare vicino a noi, dai Balcani di trent’anni fa ma non solo – stupri sistematici come quelli raccontati da diverse donne al portale Mediazona e tradotti recentemente in italiano da Internazionale. I bollettini di guerra, ormai a più di due mesi dall’inizio dell’invasione, colpiscono più per le atrocità subumane sulla popolazione ucraina (tanto ucrainofona, quanto russofona, quanto parlante le decine di altre lingue attestate in questo paese così eterogeneo) che per i bombardamenti sulle città e gli edifici (militari o civili che siano) cui l’occhio si è suo malgrado assuefatto. C’è qualcosa nell’umano e nelle sue storie individuali che ancora e per fortuna riesce a toccare – almeno – una buona parte di noi.
Il massacro, nel frattempo, è anche quello sul piano interno in Russia, perpetrato deliberatamente e impunemente ai danni della libertà di espressione, stampa, pensiero, mai come ora capace di passare in sordina sotto il fragore delle devastazioni oltre confine. Così nel mese di marzo, ad esempio, sono stati respinti sia il ricorso relativo alla sentenza a 15 anni di reclusione per lo storico Jurij Dmitriev, che quello presentato dagli avvocati di Memorial in merito alla liquidazione della storica organizzazione che si occupa di memoria delle violazioni di diritti umani e lotta per la loro difesa oggi (qui una recente lectio di Carlo Ginzburg in memoria di Arsenij Roginskij, uno dei fondatori di Memorial). Giornali come Novaja Gazeta (ma la lista è ben lunga), canali televisivi come Dozhd/Rain, radio come Echo Moskvy hanno dovuto sospendere le loro attività.
Le statistiche su quanti russi abbiano già lasciato il paese variano, arrivando nelle stime più elevate alle 200.000 persone. Si tratta perlopiù di personale qualificato, intellettuali e lavoratori del settore informatico, ma non solo. Istanbul è una meta gettonata (anche perché la Turchia non richiede visti per i russi, al contrario dell’Unione Europea), così come Georgia, Armenia, Israele, ma anche i paesi baltici. Putin non ha risparmiato un commento nei confronti di chi lascia il paese, intervenendo in diretta televisiva a Rossija24 il 16 marzo scorso: i russi sanno “distinguere i veri patrioti dalla feccia e dai traditori”, persone da “espellere come una mosca volata per caso in bocca”.
Nel frattempo, si avvicinano le cosiddette “feste di maggio” che si concludono da rito il 9 maggio, il Giorno della Vittoria (quella sulla Germania nazista nella Seconda guerra mondiale). Fonti vicine all’amministrazione del presidente Putin a fine marzo dichiaravano a Meduza che per molti all’interno dell’istituzioni russe la cosiddetta operazione militare speciale assomigliava a “una serie tv di cui si conosce già il finale, ovvero la presa di Kiev. Eppure, una volta arrivati a metà delle puntate ecco che spuntano dei negoziati e non c’è più alcuna Kiev”. Non sembra prefigurarsi alcuna vittoria da festeggiare il prossimo 9 maggio e soprattutto alcuna vittoria su qualcosa che possa accostarsi al precedente storico di questa commemorazione, dato che il 24 febbraio è iniziata un’invasione su vasta scala ingiustificata, accompagnata da un vago fine – e qui sta la retorica da 9 maggio – di “denazificazione” di uno stato che nazista non si può affatto definire. La macchina governativa russa è finita per trovarsi assediata dalla sua stessa retorica raffazzonata e contraddittoria e ora ha davanti a sé l’onere di arginare tensioni interne e spinte centrifughe in più direzioni. C’è sicuramente una sorta di “partito della guerra” che politicamente e pragmaticamente non vorrà alcuna resa ed esigerà, pur nel lungo termine, una qualche vittoria; c’è una popolazione assuefatta alla propaganda governativa, cui non si può (o forse sì, ma non senza conseguenze) improvvisamente somministrare una nuova “verità”; c’è chi è direttamente coinvolto con parenti, figli, mariti, amici da una parte e dall’altra del conflitto sul campo e ne sente addosso gli effetti; ci sono i detrattori interni ed esterni (quei “calunniatori della Russia” di una poesia di Puškin che è stata a più riprese abusata in queste settimane), cui è sempre dura dover dare anche in parte ragione.
Ma cosa pensano i russi?, (mi) si chiede spesso, una domanda che ricevono regolarmente i colleghi esperti che di queste zone si occupano da tempo. Oltre a rimandare a un bell’intervento diffuso di Stefano Aloe (Università di Verona) sul tema e a ricordare che una (parte di) Russia che si oppone c’è e non è nata soltanto con il 24 febbraio, occorre sottolineare come l’attuale silenzio assordante, tragico, a dir poco allarmante, ha radici profonde a queste latitudini ed è anche su di esso che ha giocato la struttura di potere che si è venuta a creare in questo ventennio putiniano. In esso si mescola una certa apatia dai tratti generazionali, un’eco di particolare “afasia post-sovietica” (per riprendere una felice definizione dello studioso Serguei Oushakine), la paura concreta davanti ad atti di repressione sempre più capillari e sotto agli occhi di tutti, paura che si trasforma in abitudine e si mescola a quella dissonanza cognitiva e a quel “bipensiero” destabilizzante causato dallo scontro tra discorso ufficiale e voce del singolo, tra realtà descritta e realtà vissuta, tra nozioni trasmesse ed esperite.
Intervenendo recentemente davanti a una platea di studenti, il premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievič si è assunta, a titolo dell’intelligencija di lingua russa presa collettivamente, una buona dose di responsabilità davanti all’attuale situazione, esprimendo rammarico per aver fallito nel proprio ruolo di stimolo e sviluppo di idee, strumenti, riflessioni negli anni successivi alla perestrojka. Una mancanza che ha determinato uno scollamento tra artisti e intellettuali e il resto della popolazione, ma anche una loro limitata partecipazione attiva alle novità socio-politiche. Non occorre forse addossare eccessive colpe all’intelligencija, impantanata negli anni Novanta e Duemila in problematiche varie e nuovi contesti in cui trovare il proprio spazio. Tuttavia, è bene riconoscere che sono proprio gli artisti e gli intellettuali oggi a proporre le iniziative più esplicite e scomode di opposizione e condanna dell’invasione dell’Ucraina e di quanto avviene nel proprio paese. Molti di loro lo fanno però ormai dall’estero e sarà tutto da studiare il ruolo delle voci di questa nuova dissidenza émigré nel medio e lungo periodo.