Il sostegno alla guerra in Ucraina tra i cittadini russi continua ad essere alto: il perché, per molti analisti resta un vero mistero. Un contributo importante alla comprensione viene dall'ultima ricerca del Public Sociology Laboratory, che evidenzia la centralità di fatalismo e disorientamento nella società russa
Da quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina, si inseguono interpretazioni e opinioni diverse, analisi più o meno complesse, speculazioni su come proseguirà o andrà a finire la guerra. Certo è che per la maggior parte degli analisti la decisione di Putin appare ancora parzialmente inspiegabile, azzardata e poco razionale.
Già otto anni fa – mentre infuriava il conflitto del Donbas – il corrispondente ucraino Stanislav Aseyev scriveva in uno dei reportage realizzati sotto copertura dal fronte di Donetsk e Lugansk: «È impossibile non vedere l’assurdità di questa guerra, una guerra in cui il continuo bagno di sangue è giustificato e glorificato attraverso ideali che non sono mai andati molto oltre i cancelli di un complesso universitario» (A Letter to the Russians, 2015).
Si riferiva al modo confusionario e artefatto con cui il governo russo provava già allora a motivare il proprio intervento in Ucraina: la “giunta nazista di Kyiv”, il “genocidio dei russofoni”, il sogno della novorossija, l’accerchiamento della Nato, ecc. Una serie di bugie propagandistiche, mezze-verità, esagerazioni e storture storiche che, se da una parte faticano a formare un discorso coerente, cionondimeno sembrano ancora garantire a Mosca un certo sostegno da parte della popolazione alla cosiddetta “operazione militare speciale”.
Gli ultimi sondaggi del Levada Center (uno degli istituti di ricerca statistica indipendenti fra i più stimati) indicano un tasso di approvazione per Putin che è stabile oltre l’80% dall’inizio dell’invasione e un consenso nei confronti delle decisioni belliche che è altrettanto stabile oltre il 70%.
Si tratta con tutta evidenza di risultati problematici, vista la censura e l’autocensura che vigono in tempi di guerra, lo stretto controllo dei media da parte governativa in Russia e la difficoltà di ottenere risposte e informazioni da parte dei ricercatori, ma che comunque dovrebbero rappresentare un quadro realistico della situazione.
Più complesso ancora però è scavare a fondo di questo consenso, analizzando non solo l’aspetto quantitativo del consenso alla guerra da parte della popolazione russa ma anche quello qualitativo. È quanto sta provando a fare il Public Sociology Laboratory, un gruppo di indagine sociologica indipendente fondato sull’onda delle grandi proteste di piazza Bolotnaya del 2011 e che da allora si concentra sulla politica e sulla società della Russia e del contesto post-sovietico in un’ottica comparativa.
Il gruppo ha appena pubblicato in traduzione inglese la sua seconda ricerca sull’opinione pubblica russa dall’inizio del conflitto, Resigning Themselves to Inevitability (“Rassegnarsi all’inevitabile”) sui meccanismi e sulle dinamiche con cui una parte della cittadinanza giustifica l’invasione dell’Ucraina.
«Ci premeva mostrare la molteplicità delle posizioni che si trovano all’interno di quel 70% di persone che approvano l’operazione militare speciale», ci racconta una delle curatrici della ricerca, Svetlana Erpyleva, specificando tra l’altro che tutti i membri del gruppo sono fermi oppositori della guerra.
«Le altre indagini statistiche, che restano comunque fondamentali e necessarie, dal nostro punto di vista non riescono a dar conto del fatto che esistono diversi tipi di supporto alla guerra così come diverse dinamiche di razionalizzazione di quello che sta avvenendo. Il nostro obiettivo è dunque descrivere, attraverso le parole delle persone intervistate, l’andamento della percezione della guerra nella popolazione russa in tutte le sue sfumature».
Dopo aver raccolto un primo campione di opinioni a stretto giro dall’inizio del conflitto, il Public Sociology Laboratory è tornato a interpellare la popolazione russa nei mesi successivi alla mobilitazione parziale del settembre dell’anno scorso, concentrandosi su quel segmento di cittadinanza che non si opponeva apertamente alla guerra. Circa un centinaio di interviste, con rappresentanti di diverso genere, età, estrazione sociale e provenienza geografica.
Quello che emerge è un processo di transizione da uno stato diffuso di “alienazione ontologica” (dovuto al trauma e allo shock susseguenti all’invasione, che praticamente nessuno si aspettava) a differenti strategie di razionalizzazione e auto-giustificazione.
In generale, il fatto che sia diventato evidente come il conflitto si sarebbe protratto a lungo e che avrebbe potuto iniziare a coinvolgere o se stessi o qualcuno della propria cerchia di familiari e/o amici ha spinto la maggioranza delle persone a venire a patti con questa nuova “normalità” in vari modi: reputando la guerra qualcosa di “inevitabile” o da accettare come una “fatalità” («È solo in tempi di pace che si pensa che ogni singola vita umana è degna di valore ma poi, quando succede qualcosa del genere, ti accorgi che è sempre stata un’illusione», dice un intervistato. Oppure: «Penso che questa guerra sia qualcosa di inevitabile: disgustosa, difficile, ma inevitabile»), oppure un avvenimento di cui possono comprendere il vero significato solo le persone di potere («Credo che noi riusciamo a capire solo il 5% delle motivazioni reali della guerra») ma a cui comunque occorre adattarsi, o infine una tragedia che è stata però provocata e viene esacerbata da altri (l’aggressività degli ucraini, gli Stati Uniti o la Nato, in quella che l’indagine chiama “giustificazione inversa”).
Soprattutto, c’è la percezione per molti che ciò che sta accadendo in Ucraina rappresenta uno stato di cose «ormai ben definito e per cui le persone ordinarie non possono fare nulla». Tutto questo porta alla necessità di adattarsi alle nuove condizioni da un punto di vista singolo, spesso privato.
Emerge cioè una sorta di paradosso: se è vero che il consenso per l’operazione militare è alto e rimane stabile, questo non avviene in molti casi per un’adesione totale alle motivazioni ufficiali presentate dal Cremlino o per un entusiasmo patriottico di natura collettiva. Al contrario, prevale un disorientamento di fondo che viene superato attraverso strategie di razionalizzazione e che non porta a mettere in discussione il fulcro politico delle decisioni governative.
Si spiega nel report del Public Sociology Laboratory: «Per convincersi di qualcosa di nuovo o per maturare un’opinione opposta a quella che si aveva prima, è necessario possedere delle convinzioni preesistenti (vale a dire, delle opinioni politiche coerenti), cosa che invece non ha la maggior parte delle persone interpellate. Questo significa che la più parte degli intervistati (e si può assumere con un certo grado di certezza, la più parte dei russi) sono costantemente incerti rispetto a cosa pensare della guerra, incertezza che impedisce loro sia di diventare dei determinati sostenitori dell’operazione speciale che degli oppositori decisi (ovvero, di cambiare il loro punto di vista in termini radicali)».
In questo senso la cosiddetta “propaganda putiniana”, col suo carattere multiforme e talvolta anche contraddittorio, sembrerebbe essere perlopiù inefficace nel compattare la nazione e creare un’esaltazione bellica condivisa ma, allo stesso tempo, si rivela perfettamente malleabile e utile a mantenere una sorta di consenso passivo e a fare in modo che ciascuno la possa adattare secondo le proprie esigenze per “razionalizzare” la nuova normalità di guerra.
«C’è a volte questo pregiudizio per cui la popolazione russa sarebbe composta da “zombie” annichiliti dalla propaganda», afferma Svetlana Erpyleva. «La realtà, che speriamo di mostrare con la nostra indagine, è invece più complessa: tante persone, che purtroppo non hanno gli strumenti politici per mettere in discussione il quadro d’insieme, si vedono forzate dalle circostanze ad adattarsi e a giustificare le condizioni in cui vivono. Questo tipo di consenso, secondo noi e al netto delle specificità, si crea in tanti paesi e in tante situazioni di guerra: non è un’esclusiva russa e non ha a che fare con qualche sorta di “mentalità totalitaria” che la società avrebbe ereditato dal passato».
Al contrario, il problema è tutto del presente: come superare la depoliticizzazione generale? Come valutare, alla luce di tutte queste sfumature, la responsabilità collettiva di un popolo di fronte a un’aggressione unilaterale decisa dal suo governo? La speranza – conclude il report – è che possa verificarsi un cambiamento a livello socio-politico: in un contesto differente, «molti di quelli che oggi sono sostenitori della guerra incerti e riluttanti potrebbero ben diventare i suoi oppositori».