Mercator a Belgrado

Negli ultimi anni Belgrado sta cambiando, la città sembra più moderna e dinamica, si inaugurano negozi e ristoranti. Si tratta di un segnale della ripresa dell'economia serba o di un fenomeno che interessa solo la capitale? Tim Judah, corrispondente di TOL, si è recato nelle vecchie città industriali del paese

04/11/2004 -  Anonymous User

di Tim Judah - TOL

L'apparenza inganna, non si giudica un libro dalla copertina, ecc. È vero, ovviamente, e lo dovrei sapere dopo tutte le volte che sono venuto in Serbia. Malgrado questo, mi prende l'eccitazione quando, appena messo il piede nel paese, vedo che anche l'aeroporto di Belgrado sta cambiando. "Buone notizie, sta davvero succedendo qualcosa", penso.

Metà dell'aeroporto di Belgrado è chiuso per rinnovo. Nuovi sportelli della dogana, rossi e verdi, come in qualunque altro luogo d'Europa, sono stati aperti e i vecchi macchinari a raggi x per controllare i bagagli all'ingresso nel paese appartengono ora alla pattumiera della storia.

In città ristoranti sempre più alla moda e di classe stanno aprendo. Quando faccio visita ad un amico nella periferia di Banovo brdo, mi dice che l'amministrazione locale sta per scavare e ri-pavimentare la strada dove lui abita.
Recentemente ho perfino comperato vestiti a Belgrado. Qualche anno fa non lo avrei mai fatto, non solo perché c'era meno scelta, ma perché preferivo non portare con me tutto il denaro che sarebbe servito. Ora che la Serbia si sta lentamente ricongiungendo al resto del mondo, posso pagare con la carta di credito o prelevare con il mio bancomat inglese come se fossi a Londra o da qualunque altra parte.

Effettivamente, i ristoranti alla moda e gli eleganti negozi di abbigliamento sono ancora molto oltre la portata dei normali cittadini (nonostante sembra siano sempre affollati) e la vita rimane difficile per la maggior parte delle persone, ma a Belgrado è possibile intravedere il futuro.

Uno straniero che fa la spesa a Tesco in Gran Bretagna, Geant in Francia o alla Coop in Italia potrebbe non accorgersi di quale grande affare sia il nuovo enorme centro commerciale Merkator nella zona della nuova Belgrado, ma in Serbia il suo significato è chiaro a chiunque. Merkator ha messo il denaro dove guida lo stomaco. Sembra che gli investimenti dicano "C'è futuro qui". Ironicamente la compagnia slovena ha ricostruito la Yugoslavia sui suoi scaffali facendo arrivare i prodotti da tutto il vecchio paese- ma questa è un'altra storia.

La domanda comunque rimane: questa è una visione del futuro serbo o solo di quello di Belgrado e delle ricche terre della Vojvodina a nord?

Recentemente sono stato a Zajecar, 350 km da Belgrado e vicino al confine bulgaro, per scrivere un pezzo per l'Economist. Assieme al giornalista serbo Daniel Sunter, mi sono fermato a mangiare in una nuova stazione di servizio austriaca sull'autostrada. Nel negozio si poteva veramente comperare l'Economist! Una cosa del genere sarebbe stata impensabile solo un paio di anni fa.

A Belgrado ho incontrato un professore di economia, Bosko Zivkovic. Dice che le prospettive sono contrastanti. Da una parte, i suoi migliori studenti continuano a lasciare il paese, dall'altra la crescita prosegue. Ma non di molto. Guardando l'andamento del PIL, il tasso di crescita sembra sorprendentemente costante dalla metà del 1995 in avanti. Dal 1989 al 1994, il PIL è crollato del 55%. (Negli anni della Grande Depressione, dice Zivkovic, l'economia degli Stati Uniti è caduta solo del 21%). Serve più che una velocità di crescita costante per riprendersi da un tale tracollo. Ma ora, anni dopo la fine della guerra, le persone in Serbia si aspettano che la loro economia si sia rimessa in sesto. Inoltre credono che, se le cose vanno bene in Slovenia e meglio in Croazia, anche la Serbia dovrebbe essere sulla strada della ripresa.

"Sono un pessimista", mi dice. "Noi non abbiamo la strategia, le risorse o la volontà politica per risolvere i nostri problemi".

Gli ottimisti, come Ivan Vejvoda, che guida Balkan Trust for Democracy dice che, nel resto del mondo ex-comunista, il quarto anno di transizione è stato il peggiore dopodiché non si poteva che migliorare. Aggiunge che, tenendo conto che Slobodan Milosevic è caduto quattro anni fa, questo è il punto in cui ci si trova oggi. Certo, è vero che la Serbia ha qualche problema in più: il Kossovo, il tribunale dei crimini di guerra a L'Aia, il Montenegro, tanto per nominarne alcuni, ma, ripete, le cose non possono che andare meglio.

Ma forse proprio a causa di questi problemi in più, mi sembra che, mentre Belgrado e la Vojvodina stanno girando l'angolo, il resto della Serbia non abbia ancora toccato il fondo. Questi problemi sono veri ostacoli alla crescita (e altri potrebbero essere aggiunti alla lista).

Ho chiesto a Zivkovic quale sarà il destino delle vecchie città industriali della Serbia - per esempio Nis, Kragujevac, Bor, e Zajecar - e lui ha risposto che sembrano quelle città morte "nel cuore della Siberia".

Qualche mese fa, ho fatto un viaggio in aereo sopra la Siberia. Tutto quello che si poteva vedere sotto era ghiaccio, oleodotti, neve e foreste. Ogni tanto si vedeva una città. Alla fine lo scenario rimaneva immutato per ore. Zivkovic esagera, ma rende l'idea.

Entrando all'hotel Konj a Zajecar, la prima cosa che si nota è un'esposizione di foto accuratamente incorniciate. Essendo nuovo di questa piccola città della Serbia orientale, uno pensa che le foto siano lì per indicare i luoghi più interessanti degli itinerari turistici locali. Invece si tratta di immagini di stabilimenti industriali in rovina che contrastano con una serie di ben conservate, e perfino lussuose sedi di banche. Questa, dice la didascalia, è l'economia di Zajecar nel 2004.

Non è nemmeno necessario visitare la zona industriale di Zajecar (che funziona appena) per vedere il passato e il futuro di questa città. Il mercato brulica di attività, ma la maggior parte è costituita da pensionati e disoccupati che vendono misere pile di vestiti e cianfrusaglie, pezzi di vecchie macchine e altri oggetti che sarebbero più adatti alla spazzatura. Quando ho parlato con una donna che vendeva funghi (che, tra l'altro, avrebbe venduto per una fortuna a Londra) mi sembrava che sarebbe scoppiata a piangere da un momento all'altro. Danica Stevanovic, 50 anni, ha lavorato per 20 anni, fino al 1994, alla fabbrica di cristalli di Zajecar. Ora si trova su di un cumulo di rottami e vende funghi per aiutare suo figlio a finire l'università.

Un uomo che vende cavoli e broccoli di un verde brillante e mucchi di peperoni rosso fuoco mi ha detto: "Tutti quelli che possono se ne vanno". In passato, dice, le grandi compagnie della città comperavano tutta la produzione agricola locale per dare da mangiare ai loro lavoratori. Per questo motivo qui non c'è la tradizione di esportare. Ora, perfino più persone sono occupate in agricoltura rispetto ad un tempo perché, con il collasso dei grandi datori di lavoro, devono coltivarsi il cibo da soli.

Ma con un mercato così pieno di peperoni freschi ed invitanti e cipolle, pomodori, mele, l'agricoltura e la lavorazione del cibo potrebbero essere una delle strade per contrastare il declino a Zajecar e in luoghi simili?

A Belgrado ho chiesto ai dipendenti dell'Agenzia Europea per la Ricostruzione dell'UE se c'è un motivo per cui la frutta e la verdura di Zajecar non possono finire a Tesco o a Geant. La risposta è stata che possono, se certi standards vengono misurati e rispettati. Il problema, quindi, è che finora nessuno ha creato un'infrastruttura per sostenere queste esportazioni. Non c'è nessuno che comperi i prodotti all'ingrosso, nessuna organizzazione dietro gli agricoltori, nessuna struttura per l'immagazzinamento, l'imballaggio, e il trasporto.

Questo non significa che prima o poi questo non possa succedere. Dopo tutto, una delle imprese di maggiore successo della Serbia è la Fresh&Co, una fabbrica di succhi di frutta fondata a Subotica nel 1996 che esporta in diversi paesi, in particolare nell'UE. Ma Subotica si trova sul confine con l'Ungheria, e quindi vicina ad uno dei suoi maggiori mercati d'esportazione. Un simile business deve proseguire verso sud.

Ma con i governi della Serbia che continuano a perdere tempo - e restano incatenati dalle dispute sul tribunale de L'Aia, dallo status del Kossovo e dalle relazioni con il Montenegro - ci vorrà molto tempo prima che nuove industrie e imprese mettano radici in posti come Zajecar.

Nel frattempo, possiamo solo aspettarci altre storie come quella recentemente apparsa in un giornale serbo su come le autorità locali a Kragujevac, sede di un tempo potenti ed ora morenti industrie di automobili e armi da fuoco, stiano cercando di impedire che in città le persone disperate tengano nei loro appartamenti maiali e galline.

In maniera fredda e clinica è possibile, e perfino corretto, sostenere che la dolorosa transizione della Serbia sia necessaria e inevitabile e che il paragone con la Siberia è sbagliato, specialmente visto che la Serbia si trova lungo una delle maggiori arterie viarie d'Europa. Ma la dimensione umana - i prolungati e persistenti costi delle guerre in jugoslave - non si misura in statistiche, ma nel prezzo che ha avuto sulla vita delle persone, anche di quelle che vivevano lontano dai campi di battaglia, persone reali come Danica Stevanovic, la donna che vende i funghi.

Quando Braca Grubacic, un analista di Belgrado ed editore della newsletter VIP, me li ha presentati in maniera così succinta, ho pensato che i quindici anni di agitazione e guerra, più i quattro dalla caduta di Milosevic non sono altro che un istante per la storia, ma "per una vita sono tanti".

Tim Judah è autore di" The Serbs: History, Myth & the Destruction of Yugoslavia and Kosovo: War and Revenge" e da molto tempo collabora con TOL.

Vedi anche:
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