Foto © diy13/Shutterstock

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Il pogrom degli ebrei belgradesi negli occhi e nelle parole di una bambina della stessa età di Anna Frank. Relly Alfandari e il suo libro autobiografico “ È stato solo un picnic”

25/01/2019 -  Božidar Stanišić

Il libro autobiografico di Relly Alfandari Pardo “To je bio samo piknik” [È stato solo un picnic], originariamente scritto in francese, è uscito nel 2014 in versione serba per i tipi della casa editrice belgradese Službeni glasnik, nella bella e scorrevole traduzione di Radmila Šuljagić. Ho letto questo straordinario contributo alla memoria dell’umanità all’inizio dell’anno scorso. Con ritardo, si direbbe. Ma le mie numerose osservazioni, annotate su quasi ogni pagina del libro, sono ancora attuali. Sull’ultima pagina ho scritto: “Un libro della paura e della speranza, un libro della fiducia nella vittoria del bene sul male”. Aggiungendo: “Anna Frank e Relly sono nate nello stesso anno, il 1929”.

Belgrado-Francia-Israele

Quando, quella lontana alba di aprile 1941, i bombardieri del Terzo Reich, senza alcuna dichiarazione di guerra, scaricarono il loro micidiale carico su una Belgrado ancora sonnolenta, Relly Alfandari era ancora una ragazzina che sentiva quella grande città come propria, pensando di non differenziarsi in nulla dalle sue coetanee. Aveva 12 anni, i suoi sogni per il futuro e una sensazione di felicità quotidiana perché viveva in una famiglia in cui non mancavano mai gioia, amore e vicinanza reciproca.

“Belgrado per me è la città in cui ho trascorso la mia infanzia. Provenivo da una famiglia ebrea. Mio padre era un ufficiale di riserva e un grande patriota jugoslavo. Durante l’occupazione, i cittadini di Belgrado e la vita nella città appartenevano a un altro pianeta…”, ha detto Relly Alfandari in un’intervista rilasciata in occasione dell’uscita dell’edizione serba del suo libro. Relly avvertì per la prima volta un senso di diversità, profonda e dolorosa, quando, subito dopo l’ingresso delle truppe di occupazione a Belgrado, suo padre, sua madre e suo fratello maggiore si presentarono davanti a lei con la stella di David cucita sugli abiti.

Alla fine della guerra, Relly sarà l’unica sopravvissuta della famiglia Alfandari che abitava in via Kajmakčalanska. Nel 1941 in Jugoslavia vivevano 80.000 ebrei. All’Olocausto ne sopravvissero 14.000. Relly si salvò grazie all’aiuto dello zio Jovan Jovanović e della zia Matilda, la sorella di sua madre. Lo zio di Relly era un’anima buona e coraggiosa. Pur avendo tre figli ed essendo consapevole di rischiare la pena di morte, prevista per coloro che nascondevano gli ebrei, non dubitava di aver preso la decisione giusta. Inoltre, essendo un commerciante benestante, disponeva di mezzi finanziari necessari per garantire la sopravvivenza al più giovane membro della famiglia Alfandari. In quei tempi bui, Relly trovò rifugio prima ad Aranđelovac, sotto il falso nome di Rada Jovanović, e poi a Belgrado. Nella sua città natia, ormai occupata, si nascondeva in una piccola dispensa dell’appartamento di uno dei dipendenti di suo zio, che aveva accettato di aiutare la ragazza ebrea solo perché temeva che, in caso contrario, sarebbe stato licenziato. L’unico passatempo di Relly erano i libri, che le arrivavano dalla biblioteca, dove ovviamente era iscritta sotto falso nome.

Suo padre fu ucciso da qualche parte a nord di Belgrado, mentre sua madre e suo fratello furono annegati nel Danubio e sepolti nei pressi del monte Avala. Relly giunse a questa dolorosa scoperta solo dopo la fine della guerra. Nel 1947, con la scusa di dover curare il braccio malato, andò prima in Francia, e poi in Israele dove sposò Joseph Pardo con cui ebbe due figli. Rimase in Israele, dove tuttora vive in un piccolo villaggio.

Dopotutto, non è stato solo un picnic

In una recente intervista, Relly Alfandari Pardo ha rivelato il motivo che la spinse a scrivere un libro sull’Olocausto. Quando un’ebrea sopravvissuta ad Auschwitz venne a sapere dove Relly trascorse il periodo della guerra, le disse: “Ma quello è stato solo un picnic!”. Così, da una di quelle situazioni limite in cui ci si rende conto della sofferenza, propria e altrui, scaturì l’impulso per la creazione di un libro che parla della paura e della speranza, di quel dolore che accompagna la scoperta della perdita dei propri cari e del ritorno alla vita.

Relly tentò per la prima volta di scrivere un libro autobiografico alla fine degli anni Cinquanta, ma ben presto abbandonò l’idea, provando un senso di amarezza dovuto alle ferite ancora aperte. Più tardi, negli anni Sessanta, iniziò a creare il suo archivio dell’anima, proponendolo agli editori solo quattro decenni più tardi. “Mi fu difficile tornare a quei tempi travagliati, perché scrivendo rivivevo quei momenti…”, ha detto Relly parlando del suo libro che ha visto molte edizioni, compresa quella ebraica, pubblicata dal Centro memoriale Yad Vashem.

“È stato solo un picnic” non è una testimonianza basata esclusivamente su elementi documentari. Non vi è una sola pagina che non sia impregnata di riflessioni sul periodo abbracciato dal libro, che va dal 1939 al 1947, e di immagini convincenti degli anni dell’occupazione, descritti dalla prospettiva di una ragazzina che non riusciva a capire da dove venissero quel male e quell’orrore che la circondavano. Il lettore potrebbe essere facilmente indotto a fare un paragone tra questo libro e le opere scritte da Etty Hillesum, Jona Oberski, Elie Wiesel, Primo Levi e molti altri testimoni dell’Olocausto. Non vi è dubbio che la trasposizione letteraria dell’esperienza bellica di Relly Alfandari Pardo travalica i confini della copertina del libro e ci interroga con una voce viva sul male e sulla mostruosità dell’ideologia nazista.

Nel 1945 l’umanità era convinta che il nazismo non avrebbe mai più alzato la testa, ma la nostra epoca, a partire dalle guerre balcaniche degli anni Novanta, sempre più spesso smentisce l’idea che il nazismo sia morto. Limitiamoci per questa volta all’ex Jugoslavia e all’Europa dell’Est: quanto revisionismo nelle osservazioni antisemite di ieri e di oggi! I motivi alla base della riluttanza di Relly ad accettare la tesi sulla colpa collettiva degli ebrei e di tutti quelli etichettati come “altri” e “diversi” sono identici a quelli che troviamo in altre testimonianze letterarie dell’Olocausto, ma anche profondamente personali. Quante cose fu costretta a subire quella bambina! Dalle razzie ai viaggi sotto falso nome, dallo stare nascosta in una dispensa alla paura che qualcuno tra i vicini avrebbe potuto denunciarla, dal desiderio che i suoi cari si salvassero alla drammatica scoperta che non li avrebbe mai più visti.

Nemmeno una parola in tedesco. Mai più!

Prima della guerra Relly aveva studiato il tedesco a scuola. Iniziò ad odiarlo durante l’occupazione. Il suo atteggiamento nei confronti dei soldati tedeschi e dei membri della Gestapo non era frutto di una semplice avversione verso gli occupanti. Il suo odio era focalizzato sulla voce di Adolf Hitler, sulla prepotenza e arroganza dei nazisti che si comportavano da vincitori già all’inizio della loro conquista dell’Europa. Dopo la guerra Relly si rifiutava di parlare tedesco, e anche in occasioni in cui avrebbe potuto esserle d’aiuto – come quando dovette parlare con alcuni giornalisti danesi disposti ad aiutarla ad arrivare in Francia – preferiva parlare inglese. Era come se avesse deciso che non avrebbe mai più pronunciato una sola parola in tedesco.

Molti anni più tardi, Andreas Roth, insegnate al Ginnasio tedesco di Belgrado si è rivolto a Relly per proporle di tradurre il suo libro in tedesco, e lei ha accettato. Il libro è stato tradotto da una ventina di studenti di età diversa. In occasione della presentazione dell’edizione serba del libro, tenutasi a Belgrado nel maggio 2014, Andreas Roth ha dichiarato che, pur chiedendoselo di continuo, non riesce a spiegare né a se stesso né ai suoi studenti perché durante la Seconda guerra mondiale i tedeschi abbiano commesso tanti crimini, aggiungendo di considerare la traduzione tedesca del libro di Relly un contributo alla comprensione dei fatti accaduti in quegli anni.

Un frammento dal libro “To je bio samo piknik” (Službeni glasnik, Belgrado 2014)

Dopo il riposo camminiamo più veloci. Man mano che ci avviciniamo alla destinazione, aumenta il numero di donne e bambini ebrei che portano cesti. La guerra, la miseria degli ebrei e tante lacrime… Qui, nei pressi del lager, ci rendiamo conto che siamo tutti nelle stesse condizioni, condividiamo lo stesso destino, senza alcun desiderio di nascondere i propri sentimenti. Per strada riecheggia il pianto delle donne e dei bambini il cui mondo è crollato.

Ricordo un sobborgo povero, strade vuote e case con le persiane chiuse. Non sappiamo quale strada prendere e non vi è nessuno a cui possiamo chiedere. Andiamo tutti nella stessa direzione, che si sta rivelando essere quella giusta.

Rimesse per i cannoni, ex scuderie reali, un posto circondato da alti muri grigi consumati dal tempo, dietro ai quali stavano mariti, padri, fratelli e figli di migliaia di donne e bambini. Per arrivare all’ingresso bisognava scendere, o meglio lasciarsi scivolare giù per un sentiero piuttosto lungo. L’enorme folla inizia a formare una fila. La lunga attesa sotto la pioggia e la neve. I tedeschi ci proibiscono di parlare. Si sente solo il pianto dei bambini e il sussurro delle madri che cercano invano di farli smettere di piangere. Che freddo, che tristezza. Laggiù davanti a noi, molto lontano, c’è un lungo tavolo dietro al quale sono seduti una decina di tedeschi. Dietro di loro c’è una larga doppia porta di legno, alta quanto il muro. Dietro quella porta ci sono Papà e Aca. Passano le ore. Si sentono le voci che gridano nomi degli uomini le cui mogli aspettano fuori.

Fanno entrare un centinaio di persone alla volta. Ognuno ha solo dieci minuti per trovare il proprio padre, marito e figli. Dieci minuti per trovarli tra centinaia di uomini, per dare loro le cose, per abbracciarli, per incoraggiarli ed essere incoraggiate. Molte donne sono uscite senza aver visto i loro cari.

(…)

È già mezzogiorno, siamo congelate. Le lacrime di ghiaccio ci scorrono sul viso e ci arrecano dolore. Abbiamo davanti ancora quasi due ore di attesa per vedere i nostri familiari. All’improvviso sono comparsi, correndo, due giovani soldati tedeschi, ognuno tenendo una ciambella in una mano e il fucile nell’altro. Ridevano e gridavano: “Abbiamo bisogno di sangue ebreo per inzupparci le ciambelle”.