La premio Nobel Herta Müller è intervenuta recentemente a Belgrado con una serie di dichiarazioni che hanno sollevato parecchia polemica. Il commento dello scrittore Božidar Stanišić
Herta Müller, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 2009, si è presentata al pubblico belgradese il 23 ottobre scorso presso il teatro Jugoslovensko dramsko pozorište, in una serata letteraria condotta dal giornalista Michael Martens e dallo scrittore Ivan Ivanji. L’incontro con la scrittrice tedesca di origine romena, intitolato “Logica del 29 febbraio”, è stato realizzato nell’ambito della 62° edizione della Fiera Internazionale del Libro di Belgrado, come uno dei principali eventi del programma “Quattro paesi, una lingua” (Germania, Austria, Liechtenstein, Svizzera) dedicato alla letteratura in lingua tedesca. Nel corso della serata, davanti a una sala gremita, l’attrice Mirjana Karanović ha letto alcuni brani delle opere di Herta Müller tradotte in serbo.
Quella sera di ottobre non ero tra il pubblico dell’evento letterario dedicato a Herta Müller, tenutosi nella città che conosce bene le sue principali opere in prosa per lo più incentrate sugli anni della dittatura comunista in Romania (L'uomo è un grande fagiano nel mondo, L'altalena del respiro, La volpe era già allora il cacciatore). Ho visto e ascoltato su Internet la maggior parte, e credo la più importante, di quell’incontro; ho letto un mucchio di commenti usciti su quotidiani e settimanali serbi e di altri paesi della regione.
Vi è bisogno di precisare, all’inizio di questo contributo sulla visione del mondo di Herta Müller, che non sono uno di quelli che contestano il premio Nobel per la letteratura ma che, al contrario, lo ritengo una delle ultime barriere all’ondata di mediocrità e idiotismo che dominano la letteratura degli ultimi decenni. E di aggiungere che Herta Müller, con o senza Nobel, è una scrittrice di quelle vere. E che nel corso di quella serata belgradese, parlando di argomenti letterari, ha espresso molte osservazioni interessanti sulla dittatura, il falso comunismo romeno (e non solo), la libertà, la fuga dal suo paese nel 1987 con un passaporto su cui fu riportata, a riprova dell’infinita perfidia del regime, la data di nascita errata: il 29 febbraio. E che non mi stupisce che uno dei moderatori dell’incontro, il giornalista Michael Martens, abbia dirottato la conversazione verso argomenti politici (la presenza di giornalisti in tali occasioni non è mai casuale). E che non mi ha sconvolto l’atteggiamento critico espresso dalla Müller nei confronti della Chiesa ortodossa serba, Milošević, il nazionalismo serbo, i crimini perpetrati negli anni Novanta in Bosnia e altrove (su questi temi si deve discutere – soprattutto in Serbia e Republika Srpska, a prescindere da ciò che ne pensa Herta Müller – per il bene delle giovani generazioni). E che ancora meno mi ha sconvolto quello che ha detto sulla crisi in Ucraina, Putin, e così via? (È un suo diritto esprimersi apertamente, visto che è stata “chiamata in causa”). E che non mi aspettavo nemmeno che avesse smesso di considerare i serbi gli unici responsabili di tutto il caos legato alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia. Herta Müller è rimasta ferma nella sua posizione assunta nel 1999, come membro del “coro” tedesco che fin dall’inizio degli anni Novanta abbiamo ascoltato esprimere giudizi non solo sulla Serbia di Milošević ma sui serbi in generale, e soprattutto sulla loro storia nel XX secolo. E la parte criticata non ha certo mancato di replicare, né sul versante propagandistico e politico né tanto meno su quello “culturale”.
Ma questo non è tutto. Herta Müller sostiene di non essere pacifista, buon per lei. Del resto, chi ancora si aspetta che gli scrittori siano non solo pacifisti ma anche portatori dell’idea della pace? In un’Europa dove, da Karl Kraus in poi, la maggior parte dei principali protagonisti del mondo della scienza e dell’arte non si sforzavano nemmeno di penetrare nel meccanismo di produzione della guerra come soluzione di crisi e conflitti (in fin dei conti, che cos’è effettivamente cambiato nell’atteggiamento nei confronti della guerra negli ultimi 5000 anni?).
Devo annoiarvi, ricordandovi quanti scrittori, e artisti in generale, nonché scienziati e altri che si consideravano intellettuali – da Lubiana, via Zagabria, Sarajevo, Belgrado, Podgorica, fino a Skopje – si sono schierati a fianco del “proprio popolo” qualunque cosa facesse, ma non per ragioni umane bensì nella più rozza convinzione di “agire con la testa”?
Allora, perché Herta Müller dovrebbe essere un’eccezione? Lei crede nella missione della Nato, nel potere delle armi. Fermamente, fedele a se stessa e alle proprie convinzioni (ricordiamoci di Susan Sontag e delle sue osservazioni sulla contrapposizione tra buoni e cattivi, caratterizzate dalla totale assenza di qualsiasi analisi del perché qualcuno venga considerato cattivo. E anche lei, presumo, agiva con la testa).
“Spesso il dialogo da solo non è sufficientemente efficace. Molte guerre ne sono la prova. Si deve soccorrere chi è attaccato”, ha dichiarato la Müller nel corso dell’incontro belgradese. Parlando della legittimità dell’intervento della Nato del 1999, ha detto che “la Serbia si è inflitta del male da sola e i suoi cittadini devono convivere con il fatto di essersi inflitti sofferenza da soli”.
A questa affermazione lo scrittore Ivan Ivanji, che ha trascorso un periodo della sua vita nei campi di concentramento di Auschwitz e Buchenwald, ha replicato che ad abbattere Milošević non sono state le bombe della Nato bensì mezzo milione di persone riversatesi per le strade di Belgrado.
“I conflitti nascono anche da conversazioni e discussioni. Non sono pacifista e credo che certe situazioni possano essere risolte solo con determinati interventi. Quando c’è una guerra, bisogna mettere in atto un intervento per far sì che una parte perda tutto e venga sconfitta. Alla luce di ciò, credo che l’interventismo militare rappresenti un atteggiamento umano e morale. Ce lo dimostrano continuamente diversi esempi. C’è chi pensa che basti comportarsi da gente perbene e condividere una tazza di tè perché tutto si risolva al meglio. Molte guerre hanno dimostrato che non sempre è così”, ha affermato la Müller, che auspicava un intervento dell’Alleanza atlantica anche in Romania prima della caduta del Muro (ergo una terza guerra mondiale), così come oggi lo auspica in Ucraina (ergo... è chiaro?). Nemmeno una parola, invece, sulla convergenza tra mezzi e fini, senza la quale non può esserci neanche un germoglio di etica. Quindi anche l’impiego bellico dell’uranio impoverito è giustificato? Così, implicitamente? Comprese tutte le conseguenze dannose sull’ambiente e sugli esseri viventi provocate da questa sostanza? Tutto ciò è giustificato? È il fine che conta!
Il giorno successivo all’evento, nel corso di un’intervista, Ivan Ivanji ha dichiarato: “Prima di tutto, io sono un conservatore, ben educato che ha voluto comportarsi da gentiluomo nei confronti di una signora, ma sono ‘scoppiato’ perché non ce la facevo più ad ascoltare stupidaggini esagerate […] Le sue provocazioni non sono riuscite a spingere il pubblico a interrompere l’incontro, e nella sala erano presenti quasi 600 persone. Ne sono molto fiero”. Ivanji ha inoltre affermato che Herta Müller non conosce la maggior parte dei fatti accaduti nel territorio dell’ex Jugoslavia negli anni Novanta.
“È colpa del collega tedesco Michael Martens se ieri sera allo Jugoslovensko dramsko pozorište tutto si è svolto in maniera così poco intelligente. Prima che iniziasse l’incontro gli ho detto di non porle domande sul bombardamento della Nato, ma non è servito a niente. Herta Müller è una classica vittima del modo in cui i media tedeschi parlavano della dissoluzione della Jugoslavia”. Ivanji ha infine ribadito che il pubblico è stato eccezionale, perché non c’è stato nemmeno un tentativo di insultare la scrittrice.
Poche ore prima dell’incontro con Herta Müller, presso la Fiera di Belgrado si è tenuta la presentazione della prima edizione serba del suo romanzo “Herztier” (“Životinjasrca”, Laguna, Beograd 2017). Eccone l’incipit:
“Quando stiamo in silenzio, mettiamo in imbarazzo, diceva Edgar, quando parliamo, diventiamo ridicoli. Sedevamo da troppo tempo davanti alle foto sul pavimento. A forza di sedere, le mie gambe si erano addormentate. Schiacciavamo tante cose con le parole in bocca quante coi piedi nel prato. Ma anche col silenzio”.
Infine, che dire? Che tutti noi che conosciamo, anche per esperienza, cosa significa essere scrittori, sappiamo che dai cosiddetti semplici mortali li separa solo quella sottile linea di talento per la scrittura. E che a distinguere gli scrittori umani da quegli “altri” è probabilmente la più semplice saggezza: se la mia parola non è un contributo alla pace, riconciliazione e dialogo, allora è meglio che io taccia. A dire il vero, sono in molti a non esserne capaci. Tanto da non riuscire neanche ad astenersi dall’esaltare la guerra come l’unico mezzo efficace per combattere il male. Quello stesso male il cui riflesso potrebbe scorgere anche lo scrittore, sul proprio viso, se si fermasse davanti allo specchio giusto.