Recentemente a Belgrado la stampa ha screditato la figura di Radomir Konstantinović (1928-2011), filosofo, autore del saggio Filosofija palanke e coraggioso antagonista del nazionalismo. Una rassegna
Filosofija palanke (La filosofia del villaggio) di Radomir Konstantinović (Subotica, 1928 – Belgrado, 2011) è ormai da tempo bersaglio di varie menti mediocri che, perlustrando quest'analisi profetica dello spirito della società chiusa, vi riconoscono per lo più, o esclusivamente, vedute sul fenomeno del nazionalismo nella Serbia novecentesca. L'istigatore degli attacchi più recenti alla figura e all'opera di questo scrittore e filosofo è il quotidiano belgradese Politika. Viene da chiedersi se sia del tutto casuale che questi attacchi avvengano in un periodo segnato da scandalosi tentativi di riabilitare due quisling serbi (due collaborazionisti del Terzo Reich), Milan Nedić e Dimitrije Ljotić?
“Il libro della discordia serba”
Questo è il titolo di un articolo a firma di Zoran Ćirjaković, apparso sul quotidiano Politika il 23 aprile scorso, in cui l'autore si sforza di screditare non solo la summenzionata opera di Konstantinović, ma anche la figura stessa dello scrittore. Nel concludere la sua “analisi“, tesa a insegnare ai lettori come e con che “pensatori“ non bisogna contemplare il presente e il futuro della Serbia, Ćirjaković sostiene: “Filosofija palanke ha aperto la strada all'autorazzismo serbo. Una strada lungo la quale l'antifascismo e l'Europa rappresentano false indicazioni... Il libro di Konstantinović ha portato gran parte dell'élite serba a distanziarsi dal proprio paese. Alcuni dei più grandi intelletti detestano la terra in cui sono nati e credono che l'Europa rappresenti un altro mondo, molto lontano. Un paese in cui molti personaggi di spicco si sono lasciati incantare da un libro del genere e dagli interpreti del suo messaggio non si può attendere un futuro migliore. Benché abbia scritto di un male immenso e perfido, Konstantinović non ha offerto nessuna nuova 'filosofia del male', bensì una cattiva filosofia.”
La Serbia che resiste
Questo accanirsi di Ćirjaković contro Radomir Konstantinović, simbolo della resistenza dell’Altra Serbia, non è rimasto senza replica. Da Berlino si è fatto sentire lo scrittore Bora Ćosić. All’inizio del mese di maggio, sulle pagine del quotidiano belgradese Danas è apparsa una sua lettera intitolata Zlo od filosofije (Il male della filosofia).
“Allo stesso modo in cui quegli ottusi nazionalisti croati di estrema destra non sanno che farsene di Miroslav Krleža – scrive l’autore di Dnevnik apatrida (Diario di un senza patria) e di molte altre opere – così anche questi qui, in Serbia, non sanno che farsene di Rade Konstantinović. Poiché la sua grandezza oltrepassa l'orizzonte ristretto di queste menti, che osano scrivere su cose che la loro saggezza non sogna nemmeno. A voi, cari e non casuali signori serbi, ora è permesso di sostenere impunemente come Konstantinović stia nazificando la Serbia. Ma la Serbia si sta nazificando da sola! Vi è un altro paese europeo in cui si cerca così apertamente di riabilitare i collaborazionisti del Terzo Reich? Per voi, è Konstantinović a seminare razzismo, e vi dà fastidio già il fatto che questo scrittore sia nato a Subotica, il che fa di lui un asburgo, solo perché questa città si trova nelle vicinanze della terra magiara. Una città che vide nascere anche qualche altro personaggio per caso, un certo Kosztolányi, un tale Danilo Kiš (...) Ora da quelle parti la loro viene considerata una filosofia del male. Ma in realtà il punto sta, fin da sempre, nel male della filosofia. Poiché essa non può che essere un male per un uomo superficiale, unidimensionale, quell’uomo che si sente più a suo agio senza di essa. Cosa se ne farebbe della saggezza quel gruppo, rinchiuso nel recinto della propria limitatezza? Il sapere non equivale al potere, come si sostiene nei libri di testo, ce la faremo quindi anche senza questo male, globalistico”.
La voce di Ćosić, critica anche rispetto all’orientamento di Politika, che considera un tradimento della sua tradizione culturale e democratica, non è solitaria. Tra i non pochi che hanno reagito in difesa di Konstantinović vi sono Aleksandra Đurić Bosnić, redattrice presso il Consiglio per la commemorazione dell’eredità intellettuale dello scrittore, Ivan Milenković dalla redazione del Terzo programma di Radio Beograd, lo scrittore Filip David...
Le “colpe” di Konstantinović
Credo che i sostenitori della Rivoluzione, quella nazionalista, che negli anni Novanta, a dire il vero, non vinse solo in Serbia, non riescano a perdonare a Konstantinović tre colpe principali. La prima è il suo ruolo chiave nel Circolo di Belgrado, durante la cui prima sessione, tenutasi nella primavera del 1991, pronunciando un discorso che merita di essere inserito nei libri di etica da studiare nelle scuole europee, Konstantinović definì l'Altra Serbia come “quella che dice no al crimine“, scegliendo di porsi dalla parte delle vittime. La sua seconda colpa non sta, come si potrebbe supporre, nell'incriminata Filosofija palanke, bensì in un'altra sua opera, intitolata Biće i jezik (Essere e linguaggio). Questo studio in più volumi sulla poesia serba del Novecento, in cui Konstantinović incorporò anche le proprie vedute su quei poeti che affermavano e glorificavano lo spiritopiccolo-borghese e clero-fascista, non è davvero un compendio di verità assolute, ma resta una fonte imprescindibile per ogni serio approccio a questa problematica. (Stando allo scrittore Filip David, dietro a quest'ultimo attacco contro Konstantinović, lanciato dal quotidiano Politika, si nasconde la volontà di screditare proprio questa sua opera). E la terza colpa? È semplice: con la morte di Konstantinović doveva scomparire anche la sua opera. Quindi, in quello stesso giorno del 2011, in cui la sua famiglia non ricevette alcun telegramma di condoglianze, né dal sindaco di Belgrado né dal presidente della Repubblica, occorreva che Konstantinović morisse per davvero. I filosofi della banalità, quella stessa nel cui mare l’autore di Filosofija palanke rappresenta tutt’oggi un’isola di cultura, non gli perdonano, innanzitutto, il suo essere contrario al revisionismo storico, il suo atteggiamento nei confronti del crimine (soprattutto relativamente alle vicende di Sarajevo) nonché il suo influire, anche post mortem,sugli altri. E questi altri – i problematici non spariscono mai! – nel 2015 sono finalmente riusciti a far sì che in via Zmaj Jovina 17 a Subotica, il cui Consiglio comunale aveva respinto già due volte la proposta di conferimento della cittadinanza onoraria a Konstantinović, venisse deposta una targa sulla casa natale dello scrittore. Nell’autunno dello stesso anno in questa città si è tenuto il più grande incontro scientifico finora dedicato alla sua figura e opera. Sì proprio lì, a due passi dalle barriere di filo spinato volute da Orbán. Se avesse potuto assistere al loro innalzamento, l’autore di Filosofija palanke (di cui esiste anche una traduzione ungherese) si sarebbe forse rivolto all’Europa con queste parole: “Che musica è quella che emana dai muri di filo spinato? E’ del tutto sconosciuta?”
Konstantinović, uno scrittore europeo
Se state sfogliando i cataloghi elettronici delle principali biblioteche europee, non sforzatevi inutilmente: l'autore dei romanzi Daj nam danas (Dacci oggi), Mišolovka (Trappola per i topi), Čisti i prljavi (Puliti e sporchi), Izlazak (Uscita, che gli valse nel 1960 il prestigioso premio NIN); dei saggi Ahasver ili traktat o pivskoj flaši (Ahasvero o il trattato su una bottiglia di birra), Pentagram (Pentagramma), Filosofia palanke (prima edizione del 1969), nonché di due opere difficili da classificare, Dekartova smrt (La morte di Descartes, un libro degno della Biblioteca mondiale) e Beket prijatelj (Beckett amico) – non si trova. Ovviamente, nemmeno si trovano informazioni sui suoi sei radiodrammi degli anni Sessanta, tradotti e interpretati in diverse lingue. Sappiamo che viene spesso citato negli articoli e nei saggi sull'ex Jugoslavia, ma chi è questo Konstantinović? Perché non vi sono traduzioni delle sue opere nelle principali lingue europee? Sono solo alcuni degli interrogativi che potrebbe porsi ogni lettore di questo articolo commemorativo. E allora diciamo almeno qualcosa su Konstantinović, autore di Filosofija palanke, il quale, se fosse stato uno scrittore tedesco, francese o inglese ad esempio, probabilmente sarebbe diventato un accademico nel proprio paese (e non soltanto un membro dell'Accademia delle scienze e delle arti della Bosnia Erzegovina).
Nella critica che Konstantinović rivolge alla tirannia della palanka, situata “da qualche parte tra villaggio e città“, alla sua religione “che vede Dio supremo nell'unitarietà“ e al suo spirito propenso a “soluzioni preconfezionate“, sul finire degli anni Settanta vi riconobbi innanzitutto una critica del sistema monopartitico jugoslavo che rifiutava qualsiasi ipotesi di riforma più radicale. Filosofija palanke fu pubblicata per la prima volta nel 1969, quindi un anno dopo il '68 belgradese e jugoslavo. Ed è questa la ragione per cui ritengo che uno dei moventi che spinsero Konstantinović a contemplare lo spirito di quell'epoca sia da ricercare in un suo sdegno molto concreto. Indicativo in questo senso è un suo articolo su ciò che accadde a Belgrado il 4 giugno 1968, intitolato Da deca ne umru (Che i figli non muoiano).
Questo articolo, di cui all'epoca fu vietata la pubblicazione, è provocatorio in un contesto più ampio di quello in cui era nato. “Io mi chiedo: c'era a Belgrado, quel giorno, qualcuno che non si è sentito scosso nelle proprie fondamenta, nel punto stesso del proprio equilibrio quotidiano? Il 4 giugno, per me, è un grande poema, un'autentica opera poetica perché, come la più solenne delle poesie, ha messo a repentaglio le mie certezze quotidiane, non solo quel grigiore in cui stavo sprofondando, ma anche la morte stessa di quella sicurezza“.
Sul finire degli anni Ottanta, Filosofija palanke mi si rivelò anche come critica di quella coscienza angusta che cerca se stessa nel patriottismo, quello stesso patriottismo che Samuel Johnson, già nel lontano 1775, definì “l’ultimo rifugio delle canaglie”. In questo rifugio non vi è spazio per l’eresia – ogni eretico è anche rinnegato. Eppure quello di rinnegato è un epiteto d'onore da attribuire a tutti coloro che continuano a ribellarsi contro la preponderanza delle ideologie nazionaliste in un paese in cui – ricordo bene, fu proprio a Sarajevo nel 1985 – Konstantinović dichiarò che “la crisi è una nostra opportunità”. Ma questa opportunità l’hanno sfruttata quegli altri: populisti di tutti i colori, nazionalisti, sciovinisti.
Quanto ha imparato l’Europa, oggi più “ricca” di tendenze di estrema destra, dalla vittoria della Rivoluzione nazionalista e sciovinista nelle nostre zone – dal Danubio all’Adriatico? La palanka di Konstantinović è attuale solo in quanto metafora di una dilagante uniformazione del pensiero che, servendosi del linguaggio politico del Giorno, resta privo del mistero della Notte, di quel drammatico interrogarsi su se stessi e sull’altro? Eppure, è molto più facile scappare da un dramma che affrontarlo.
Amico di Beckett
Per concludere, qualche parola su un episodio di quella Rivoluzione nazionalista. Quando, nell’autunno del 1991, dalla casa rovignese di Rade Konstantinović furono “patriotticamente” rubati e buttati per strada libri, manoscritti e corrispondenza dello scrittore, tra quei fogli vi erano anche alcune lettere di Samuel Beckett (Rade fu uno dei suoi rari amici). I manoscritti non bruciano, sostiene Bulgakov. Ma che potessero essere calpestati e fatti sparire, all’autore de Il Maestro e Margherita non venne in mente? O ha voluto lasciar noi a rifletterci sopra? Ed è per questo – o è solo una mia impressione – che quelle lettere dell’autore di Aspettando Godot che mancano dal libro di Konstantinović Beckett amico, aprono un vuoto. Un vuoto del tutto particolare, nel quale, come in un campo di caccia, a partire dall’inizio degli anni Novanta le prede più facili da colpire sono il Libro e l’Uomo.
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Estratti
RADOMIR KONSTANTINOVIĆ
"Quindi non solo viviamo quotidianamente in questa situazione di normale mostruosità, non solo ci siamo abituati ai mostri e ci siamo imparentati con loro, ma ecco che ci stiamo trasformando in mostri anche noi; vivere sottomessi alla brutalità del nazionalismo totalitario significa non solo acconsentire sempre più, giorno per giorno, a quella violenza, ma anche accettarla come propria: accettare l’inaccettabile e accogliere il mostruoso come naturale. Viviamo (se questa è vita) in un mondo in cui il mostruoso diventa naturale, e il naturale mostruoso. Per questo l’umanità, se la incontriamo, ci appare come irreale; ma per lo stesso motivo il mostro, così onnipresente, lo notiamo a malapena. Vivere con un mostro significa non accorgersene, non vedere il mostro come tale.
Il totalitarismo rende gli uomini ciechi nei confronti della Mostruosità, e questa è la cosa più orrenda: nel totalitarismo è terribile il fatto che l’orrore sia ridotto al minimo. Assenza dell’orrore, inconcepibilità del mostruoso, invisibilità del mostro, ossia fantomizzazione del mostro: non è questo forse un segnale che siamo affondati nella Mostruosità? Se non vedo il mostro, non è forse perché sono io stesso divenuto un mostro? Ogni totalitarismo, in quanto demiurgo della mostruosità, aspira fondamentalmente alla propria invisibilità: aspira a conquistarci completamente, a diventare il nostro io. Per questo la maggior parte della gente non si accorge assolutamente del totalitarismo, non lo percepisce, non lo vede come tale: quasi sempre noi stessi siamo vittime e attori del totalitarismo senza esserne per nulla coscienti. Non esiste una coscienza del totalitarismo.
Coscienza e totalitarismo sono inconciliabili. Coscienza e Mostruosità sono inconciliabili: il lavoro del Circolo belgradese può iniziare".
(Radomir Konstantinović, frammento del discorso tenuto alla Prima sessione del Circolo belgradese, 11 aprile 1991, traduzione di Alice Parmeggiani)
FILIP DAVID su Radomir Konstantinović
"Tempo fa un giornalista straniero mi pregò di scrivere qualcosa, alcune frasi concise, sulla figura e l’opera di Rade Konstantinović. Ecco quanto ho scritto:
Radomir Konstantinović è la personalità intellettuale più significativa della letteratura serba contemporanea e della filosofia della cultura, uno scrittore che vive in un “esilio interno” da più di dieci anni, ossia dall’avvento al potere di Slobodan Milošević. In quanto romanziere appartenente al moderno spirito europeo, con le sue opere ha segnato momenti importanti e decisivi della storia della letteratura serba della seconda metà del secolo scorso e dell’inizio di questo. Due delle sue opere più recenti, Dekartova smrt e Beket, prijatelj - La morte di Descartes e Beckett, l’amico, sono come genere letterario vicine al romanzo, ma rivelano profonde tracce autobiografiche e rappresentano il culmine del postmodernismo serbo.
Gli otto volumi del brillante studio analitico Biće i jezik (u iskustvu pesnika srpske kulture) – Essere e lingua (nell’esperienza dei poeti della cultura serba) – costituiscono un’analisi, tuttora insuperata, del “poetare e pensare” dei poeti serbi fra le due guerre mondiali e una critica analitica, eccezionalmente documentata, dello spirito provinciale e piccolo borghese che permea la poesia e la cultura serba.
Lo studio filosofico Filosofija palanke – Filosofia della cittadina di provincia – interpreta l’origine e le caratteristiche principali dell’esperienza provinciale, analizzando in modo brillante e spietato lo “spirito della provincia” come concezione del mondo, della vita, della creazione artistica, la penetrazione del provincialismo nello spirito, nella lingua, lo “spirito di una tribù in agonia”, quella specifica esistenza da cui sono scaturite infantilismo spirituale, xenofobia e una forma particolare di nazismo serbo. Filosofia della cittadina di provincia spiega, meglio di qualsiasi altro prodotto letterario o filosofico del pensiero serbo, la sostanza del modello culturale dominante nella Serbia degli anni Novanta, l’origine e il retroscena del nazionalismo trionfante, la causa e la profondità della caduta morale della maggior parte dell’intelligencija serba che sono terminati nella totale distruzione e nei crimini di guerra. Senza la conoscenza delle opere di Radomir Konstantinović non è possibile capire i lati oscuri della storia intellettuale serba, tutte quelle strade sbagliate e quelle illusioni che hanno portato la Serbia in un tragico vicolo cieco storico e culturale.”
In quelle poche righe non era possibile far stare molte delle cose che avrei dovuto dire della biografia letteraria non solo di Konstantinović, ma anche della mia: per esempio che con i suoi primi romanzi e i suoi saggi Rade ha davvero aperto uno spazio letterario per la mia generazione, in cui c’erano scrittori come Danilo Kiš, Mirko Kovač, Borislav Pekić. Rade rappresentava quell’indispensabile duplice legame sia con quanto di meglio, per ciò che riguardava lingua e pensiero, esisteva nella nostra tradizione letteraria, sia con la moderna, contemporanea Europa letteraria. Stava sempre un passo avanti rispetto agli altri, con una perfetta sensibilità per lo spirito dei tempi e per le nuove tendenze. In una letteratura nel complesso chiusa e comunque povera, con il suo spirito, i suoi temi e quel coraggio che solo i più arditi e i più talentuosi posseggono, egli apriva una strada, la vera strada per la quale si usciva dall’esclusivismo parrocchiale, dalla mentalità piccolo borghese dell’autosufficienza, dalla chiusura provinciale".
(Filip David: Čovek suštine, Peščanik.net, 4. novembar 2011, traduzione di Alice Parmeggiani)