Dopo aver rispettato le condizioni legate alla collaborazione con il Tribunale internazionale dell'Aja, la Serbia trova davanti a sé un altro grosso ostacolo lungo il cammino verso l'Unione europea: la questione del Kosovo. La recente visita a Belgrado del cancelliere tedesco Angela Merkel ha sollevato molti malumori tra i politici e i cittadini serbi. La Merkel infatti aveva posto come condizione per l'ottenimento dello status di Paese candidato la rinuncia al nord del Kosovo. Un commento
Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha fatto imbestialire il presidente serbo Boris Tadić e l’intero establishment politico della Serbia. Ma non sono solo i politici ad essere irritati. Neanche i cittadini sono pronti per sentire le dure parole del cancelliere che, detto brutalmente, dicono: “E' tempo ormai che rinunciate al Kosovo”.
Dai Angela, noi vorremmo giocare ancora un po’ con la politica “sia il Kosovo che l’Unione europea”. Vi ricordate? Era lo slogan e il fondamento della campagna elettorale del Partito democratico (DS) che diede a questo partito la maggioranza dei voti e la possibilità di formare il governo. E fino a pochi giorni fa sembrava che questa formula politica potesse garantire alla Serbia la candidatura all’UE, e forse pure la data di avvio dei negoziati di adesione.
L’entusiasmo era aumentato improvvisamente dopo l'adempimento di tutte le condizioni legate alla collaborazione con il Tribunale internazionale dell’Aja. Ratko Mladić e Goran Hadžić estradati all’Aja, la Serbia dopo anni di sofferenze riusciva a chiudere una delle questioni più delicate che le bloccavano la strada verso l’integrazione europea. Una serie di leggi, compresa la legge sulla restituzione delle proprietà, è stata preparata e sottoposta al dibattito pubblico. La riforma della magistratura, fatta con molti errori, sta attraversando la fase di riesame, e ci si attende che anche questa richiesta dell’Unione europea venga risolta con successo. Le lotte politiche interne, che la scorsa primavera avevano minacciato seriamente di far traballare il governo, sono state ammortizzate con successo dal presidente Tadić e dalla coalizione di maggioranza con la storia che non è tempo di conflitti perché la Serbia ad ottobre di sicuro otterrà lo status di Paese candidato, e si era persino parlato di una sicura data per l’avvio dei negoziati di adesione.
In pochi avevano fatto riferimento al Kosovo. Sono quindi iniziati, come li definiscono i serbi, i colloqui tecnici tra Pristina e Belgrado. Non si discute dello status, anche perché c’è ben poco da discutere. La posizione è nota. Il Kosovo e Metohija è parte indissolubile della Repubblica della Serbia. I colloqui erano stati avviati con l’intenzione di risolvere una serie di problemi seri e ancora aperti: le frontiere, i timbri doganali, i diplomi scolastici, la corrente elettrica e altre questioni che appesantiscono le quotidiane relazioni tra Belgrado e Pristina. Sembrava che la Serbia avesse preso l’iniziativa con questi colloqui, proponendo soluzioni concrete a problemi concreti.
Ma alle persone che seguono da vicino quello che accade da queste parti era chiaro che era solo un tentativo di prender tempo. È piuttosto difficile discutere della soluzione di problemi quando le parti in causa sono su posizioni diametralmente opposte. Non stupisce quindi che dopo tutti gli incontri tra il negoziatore serbo, Borislav Stefanović, e la rappresentante di Pristina, Edita Tahiri, non ci siano stati risultati concreti.
In luglio il Kosovo del nord è di nuovo bollente. Il tentativo di controllare la linea amministrativa da parte di Pristina ha incontrato le scontate forti reazioni dei serbi del Kosovo. Incendi, dimostrazioni e blocchi stradali hanno fatto per l’ennesima volta il giro del mondo. Nonostante ora la situazione si sia calmata e il governo kosovaro e la comunità internazionale abbiano rinviato l’introduzione delle istituzioni kosovare nel nord del Paese. Tuttavia, era evidente che la questione Kosovo sarebbe diventata il tema più importante per la Serbia, e che lo status quo non potrà resistere ancora a lungo.
Poi è arrivata come una bomba la visita di Angela Merkel a Belgrado (22-23 agosto). Non solo perché alla Serbia è stata posta una “nuova” condizione, la collaborazione regionale, condizione che fu per la Croazia un grande ostacolo all’euro-integrazione, ma anche perché la Merkel ha detto che non ci sarà alcuna candidatura, cosa che sembrava praticamente già fatta, e che sulla data di avvio dei negoziati si può solo fantasticare.
Due giorni dopo la visita del cancelliere tedesco, a Belgrado è arrivato il premier sloveno Borut Pahor. Il presidente serbo ha chiamato in aiuto il dichiarato amico della Serbia e i suoi sforzi per accedere all’Unione europea. Pahor ha messo “la palla al centro” e ha detto che la Serbia si merita di ottenere lo status di candidato. Sembra che sia stata una buona mossa, perché Angela Merkel in visita alla Slovenia ha ammorbidito le sue posizioni sulla collaborazione regionale della Serbia.
Comprensibile e prevedibile che la questione Kosovo sarebbe stata la più dolente per la Serbia lungo la strada per l’euro-integrazione. Ed è chiaro che l’Europa non permetterà che si rimandi all’infinito la determinazione dei confini nei Balcani. Ma, bisogna con questo condizionare la candidatura della Serbia, che è l’unica cosa che dà ai cittadini una qualche sorta di ottimismo? A questa domanda non sono riuscita ancora a dare risposta.
Alcuni giorni fa, un diplomatico di lungo corso a Belgrado mi ha detto di essere convinto che la Merkel abbia “giocato”, che quella da lei espressa non è la posizione della maggioranza dei membri UE. Il diplomatico dice inoltre che la Serbia si è “meritata” la candidatura rispettando le condizioni dell’Aja. Che c’è ancora tempo a sufficienza per proseguire con le pressioni su Belgrado per quel che riguarda la collaborazione regionale, ma dopo l’ottenimento della candidatura all’UE. “La Serbia reagisce solo sotto pressione” aggiunge il diplomatico. Ma questa non è una novità.
Le notizie sul colloquio tra la Merkel e Tadić le ho lette mentre ero via da Belgrado. E, per quanto fossi arrabbiata perché mi sono passate per la testa le leggende sul Kosovo e tutti i problemi ad esso legati, non sono riuscita ad evitare di provare un senso di amarezza per le continue pressioni, condizionamenti e il costante senso di umiliazione.
Ora, non so se mi sento più umiliata per il fatto che l’élite politica di questo Paese è in eterno ritardo nella soluzione dei problemi o se mi sento male perché i “poliziotti occidentali” trovano sempre qualcosa di nuovo, e non è mai abbastanza, e noi non riusciamo in nessun modo a toglierci di dosso gli anni Novanta. Non so se, a ragione o torto, mi manda più in bestia la dichiarazione della premier croata quando dice che il più grande amico della Croazia è il Kosovo o la risposta del nostro ministro degli Esteri tanto abile negli scandali diplomatici, Vuk Jeremić, quando ribatte (e l'ha detta grossa) “chi ha come amico la Kosor non ha bisogno di nemici”. Lotto per non diventare una di “quelli” che sono rimasti delusi dalla decennale lotta contro il regime, perché le cose cambiano lentamente e non c’è verso che ci tolgano dalla lista nera.
Sia il Kosovo che l’Unione europea. Come no. Non credevo a questa politica nemmeno quando le votai a favore. Fu una scelta di dovere. Oggi spero che l’Unione europea diventi più vicina a partire da ottobre, e che otterremo lo status di Paese candidato. Certo non ci aiuterà molto nella vita quotidiana, ma oltre al fatto che potremo ottenere più mezzi, potremo quanto meno alzare un po’ la testa.
E il Kosovo? Sembra proprio che la questione sarà risolta dal prossimo governo. La maggior parte delle cose è ormai nota, credo che debbano solo impacchettarci le notizie amare con del marzapane.