In occasione del centenario della morte di Nadežda Petrović (Čačak, 1873 – Valjevo 1915) – uno sguardo alla vita e all'opera della più grande pittrice serba a cavallo tra due epoche
Di quel fosco periodo immediatamente precedente lo scoppio della guerra in Bosnia ricordo anche le lunghe conversazioni con gli amici. Era un periodo in cui noi, perdenti nell’epoca di “cambiamenti democratici” di impronta nazionalista, ci scambiavamo libri, riviste, pellicole con un entusiasmo inedito. Fu così che un giorno andai a trovare un mio amico il quale, invece del consueto saluto, mi diede nelle mani un libro. Un libro – dedicato alla pittrice Nadežda Petrović – a cui ritornava ormai da parecchio tempo anche se il perché non gli risultava del tutto chiaro. “Se vuoi, leggilo”, mi disse.
Quel “folle pennello azzurro”
Trascorsi un paio di giorni, mi recai di nuovo da lui e questa volta la nostra conversazione si protrasse fino a notte inoltrata perché quel libro – un intrigante pozzo di pensieri sulla pittura, le convinzioni estetiche e la vita di Nadežda Petrović (Katarina Ambrozić[1] , Nadežda Petrović 1873-1915) – accese non poche scintille polemiche tra di noi. E questo non solo per il fatto che io ero (e sono tuttora) solo un visitatore occasionale del “settore” e lui un ottimo conoscitore della storia dell’arte degli slavi meridionali, ma anche perché quella notte lontana il mio amico sosteneva che, se non fosse stato per Monaco di Baviera e Parigi, Nadežda non sarebbe mai diventata una pioniera di nuove tendenze artistiche. E io, d’altro canto, mi ero ostinato nel difendere una mia convinzione: non tutto il merito è da attribuire ai grandi centri d’arte, contano anche le radici di ogni singolo artista, l’ambiente da cui si parte per raggiungere quelle stesse metropoli. “E se, invece, il padre di Nadežda non fosse stato Mita Petrović”, gli dissi, “e sua madre, Mileva, non si fosse dimostrata una donna del tutto insolita per quell’epoca?” Egli rimase sorpreso da questo mio tirar fuori, da chissà dove, il discorso sui genitori, ma io continuai ad insistervi, convinto che il loro fosse stato un appoggio decisivo.
Fu nel 1884 che i coniugi Petrović decisero di trasferirsi da Čačak, una piccola cittadina della Serbia centrale, a Belgrado, lasciando ad ognuno dei loro nove figli libera scelta sulla strada da intraprendere. “Chissà”, dissi quella notte, “se nel caso avessero deciso diversamente Rastko, fratello minore di Nadežda, sarebbe diventato un grande protagonista dell’avanguardia letteraria?” Il mio amico, tuttavia, pareva più interessato a quella prima mostra personale di Nadežda che ebbe luogo nel 1900 in quanto già in quell’occasione, sempre stando al mio interlocutore, si sarebbe potuta notare una netta differenza tra gli esordi della giovane insegnante di disegno che si perfezionava sotto la guida di Đorđe Krstić e Cyril Kutlik e le opere realizzate a Monaco. Iniziò a sfogliare quel libro, cercando di farmi vedere le riproduzioni in questione. “Ma non vedi che fu proprio a Monaco, prima nello studio di Anton Ažbe, e poi in quello di Julius Exter, che Nadežda sentì i primi soffi di nuove tendenze pittoriche? È lì, caro mio, che iniziò la sua trasformazione artistica. Quella decisiva, invece, la sperimentò a Parigi, dedicandosi, come pochi altri suoi contemporanei, alla pittura en plein air vissuta come un costante interrogarsi su se stessi e sul mondo. Leggi un'altra volta le sue riflessioni sulla pittura! In quel periodo di grandi svolte artistiche, nell'intero panorama balcanico non vi fu espressione più chiara della nuova sensibilità modernista. I suoi dipinti incarnavano gli ideali dell'impressionismo, espressionismo e fauvismo in un periodo in cui negli ambienti accademici, compresi quelli nostrani, l'esattezza veniva considerata l'unico criterio di verità. Concentriamoci, dunque, su Parigi e Monaco, lasciamo da parte i dettagli irrelevanti!“
“Irrilevanti! E se Mita Petrović fosse stato uno di quei ‘rispettabili’ cittadini del suo tempo che usavano battere il pugno sul tavolo e decidere con autorevolezza del futuro dei propri figli? E se sua moglie, una volta venuta a conoscenza della decisione di Nadežda di interrompere le nozze, non avesse appoggiato la figlia? Colui a cui Nadežda fu promessa era più interessato alla dote (che si sarebbe guadagnato col matrimonio) che alla sua futura moglie”. Ah, quest’ultimo dato incuriosì il mio amico – gli era sfuggito mentre leggeva il libro, essendosi per lo più concentrato sul fatto che Nadežda non si separava mai dalla sua macchina fotografica. Ma di quella decisione di Nadežda, gli dissi, ci parlano anche altre fonti, e in modo più approfondito, come una sua lettera inviata, da Monaco, alla madre: “Mi sento davvero felice per il fatto di non essermi sposata, perché se l’avessi fatto, ora sarei solo una donna comune, come Lina ed altre mie amiche, costrette a passare l’intera vita pagando i debiti alla Natura. Io cercherò di pagare i miei debiti in un altro modo”.
Sostenevo, inoltre, che Nadežda seppe far coesistere dentro di sé la consapevolezza del fatto che proveniva da una società dove in quei tempi solo una ragazza su dieci veniva mandata a scuola, l’impulso di ribellarsi contro il moralismo patriarcale e una profonda fiducia nella sensatezza delle proprie scelte. Solo perché dotata di un tale carattere, riuscì a sopportare il giudizio di un autorevole critico d’arte che descrisse le sue opere come prodotto di un “folle pennello azzurro”, un’aspra allusione al termine “bluestockings” (calze azzurre) con il quale, nell’Inghilterra del Settecento, furono indicati i circoli letterari frequentati dalle donne istruite dell’alta società. Suppongo che per Nadežda nemmeno l’opinione di Ivan Cankar, grande scrittore sloveno che la ritenne “una signorina priva di talento”, fosse una cosa facile da accettare. Il poeta croato Antun Gustav Matoš invece scrisse: “Quei dipinti sono nervosi, apocalittici, dominati da un rosso possente come il sangue, come un fuoco che riduce in cenere tutti gli esseri viventi...”
“Guarda quegli occhi”, dissi al mio amico, mostrandogli il “Ritratto di Ksenija Atanasijević” realizzato nell’inverno 1912. “Quello sguardo deciso, quei tratti duri non rivelano solo la percezione che Nadežda ebbe di questa futura professoressa di filosofia e una delle prime sostenitrici dell’emancipazione femminile, ma rispecchiano anche il suo stesso essere in quel preciso momento – una pittrice giunta alla sua piena maturità artistica e impegnata nella difesa dei diritti delle donne”.
Un’autentica protagonista della Storia
Il mio interlocutore invece fu del parere che Nadežda avrebbe fatto meglio a dedicarsi di più alla pittura invece di, per citarlo letteralmente, lasciarsi prendere dallo scorrere della Storia. Io sono tuttora convinto del contrario: no, piuttosto che lasciarsi portare dal fiume, Nadežda navigava controcorrente, guidata delle sue proprie idee ed aspirazioni. E non era come questi “patrioti” odierni, fino a ieri comunisti, oggi profittatori. Il suo essere serba non escludeva la solidarietà con le vittime della Rivolta di Ilinden né la fiducia nell’unificazione degli slavi meridionali. Dalla stessa prospettiva percepiva anche il proprio ruolo di artista. Fu principalmente merito suo se nel 1904 a Belgrado venne organizzata la Prima mostra dell’arte jugoslava e se nell’anno seguente nella cittadina di Sićevo fu fondata la prima colonia dei pittori jugoslavi. Gli artisti di origine slava – croati, sloveni o bulgari che fossero – li considerava come fratelli, sicché nel 1908 durante un soggiorno a Parigi abitava nello studio montparnassiano dello scultore Ivan Meštrović (dove conobbe Matisse e Rodin), mentre il suo miglior amico era un pittore sloveno, Rihard Jakopič.
“Tutto ciò è ormai acqua passata”, commentò il mio amico, “il clima di ostilità si sta diffondendo ovunque, basta guardarsi. Magari sarebbe stato meglio se Nadežda si fosse concentrata sulla sua arte, invece di prendere parte, come infermiera, ad entrambe le guerre balcaniche e al primo conflitto mondiale. Perché nel 1915 rifiutò di abbandonare le prime linee e ritirarsi a Belgrado o Niš? Dicono che ci fu anche la possibilità di andare in Italia, ad una conferenza”. Ma io rimasi fermo nella mia convinzione: “Era così com’era. E come tale, non smise mai di dipingere, disegnare, fotografare”. (Fu la prima donna fotografa sul fronte balcanico.) Mai, fino agli ultimi giorni della sua vita, spentasi a Valjevo, consumata dalla febbre tifoide.
“Come se avessimo posticipato qualcosa...”, mi disse quella notte lontana il mio amico mentre ci salutavamo.
Qualche raccomandazione, un po’ turistica
Le opere di Nadežda Petrović – rappresentanti paesaggi serbi, Parigi, rive della Senna, Bois de Boulogne, Bretagna, Venezia, vecchia città di Prizren, monasteri ortodossi e campi di battaglia – si trovano oggi esposte in alcuni musei della capitale serba (il Museo della città di Belgrado, il Museo d’Arte contemporanea nonché il ben noto Museo Nazionale di cui fa parte anche uno spazio espositivo dedicato alla memoria di Nadežda e di suo fratello Rastko), nella Raccolta memoriale di Pavle Beljanski a Novi Sad e nella Galleria d’Arte di Čačak che porta il nome della pittrice. Se andare a visitarli prima o dopo aver ceduto alle tentazioni dei ćevapčići serviti con kajmak e cipolle, magari anche accompagnati da un bicchiere di birra locale, sta a voi decidere. In ogni caso, avrete a disposizione degli esperti pronti a guidarvi dentro la magia di quel “folle pennello azzurro” dove il fatto che l’unica mostra europea dedicata a Nadežda fu allestita nell’ormai lontano 1985 presso la Pinacoteca di Monaco perderà ogni importanza. Non state a pensare troppo a questa negligenza, tipica dell’Europa – godetevi il momento!
[1] Katarina Ambrozić (Mostar, 1925 – Belgrado, 2003) si laureò nel 1948 in Storia dell’Arte alla Facoltà di Filosofia dell’Universià di Belgrado, proseguendo gli studi a Parigi presso l’École du Louvre. Fu la prima storica dell’arte jugoslava a conseguire un dottorato in storia dell’arte moderna, con una tesi, discussa all’Università di Ljubljana, dedicata proprio a Nadežda Petrović e agli esordi dell’arte moderna in Jugoslavia. Il lungo periodo tra il 1948 e il 1985 la vide impegnata come curatrice, consulente scientifica e direttrice della sezione dedicata all’arte straniera del Museo Nazionale di Belgrado. Il suo impegno professionale spaziava tra collaborazione con vari giornali e riviste d’arte, partecipazione ai dibattiti pubblici e congressi internazionali, cariche nelle numerose organizzazioni accademiche (fu tra l’altro la prima segretaria dell’associazione Jugoslavia-Francia e la presidente della Sezione jugoslava dell’Associazione Internazionale dei Critici d’Arte) e dedizione all’attività didattica (come professoressa di Storia dell’Arte moderna e contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Novi Sad). Oltre ai numerosi riconoscimenti ottenuti in patria, fu insignita di due prestigiose onorificenze internazionali: “Croix de Chevalier de l’Ordre des Arts et Lettres” del ministero della Cultura francese e “Orden de Isabel la Catolica” conferito dal Governo spagnolo.