Open Balkan, tra successo e rassegnazione
6 august 2021
Un passo importante in direzione di Bruxelles, o la vittoria rassegnata della logica della “fatica da allargamento”? Lo scorso 29 luglio i premier di Albania, Macedonia del nord e Serbia hanno firmato a Skopje gli accordi che danno vita ad “Open Balkan”.
L'iniziativa, che corona un processo negoziale iniziato nel 2019 sotto il nome di “mini-Schengen”, porterà entro il 2023 all'abolizione dei controlli di frontiera tra gli stati che l'hanno sottoscritta, insieme a norme che faciliteranno sia la libera circolazione delle merci che dei lavoratori.
“Open Balkan” rappresenta senza dubbio un esempio tangibile di cooperazione regionale, che nell'area – ancora divisa da ferite post-belliche e sfiducia latente – è tutt'altro che scontata. “Basta girarsi le spalle tra vicini, come abbiamo fatto negli ultimi cinquecento anni!” è stata la sintesi emotiva della cerimonia della firma da parte del premier albanese Edi Rama.
A spingere verso la creazione di un “piccolo spazio Schengen” nei Balcani ci sono vari fattori, soprattutto di carattere funzionale e pragmatico. L'idea è quella di creare un'area economica allargata, in grado di superare la frammentazione emersa dalla disgregazione jugoslava, ed in grado di attirare investimenti e generare crescita.
Al risultato finale hanno contribuito anche le spinte provenienti dall'esterno: “Open Balkan” ha infatti avuto un aperto sostegno sia da parte degli Stati Uniti che dell'Unione europea.
Tra i fattori che hanno spinto Rama, Zaev e Vučić a sottoscrivere gli accordi, però, c'è anche una considerazione rassegnata: nonostante l'obiettivo di piena integrazione europea, i tre paesi che rappresentano (e potenzialmente tutti i Balcani occidentali) resteranno ancora a lungo a bussare alle porte di Bruxelles. Nessuno sa quanto.
Con la prospettiva di integrazione sempre più ambigua, “Open Balkan” è quindi, nelle speranze, un passo importante per mostrare capacità di cooperare, di superare le ruggini del passato e rilanciare da una posizione più solida il tormentato cammino verso l'UE.
Il rischio, nemmeno troppo velato, è però che il mezzo si trasformi in fine, e che la creazione di una sorta di “piccola nuova Jugoslavia” venga vista, soprattutto a Bruxelles, come una valida alternativa di medio-lungo periodo alla promessa ed alla visione dei Balcani occidentali come parte integrante del progetto europeo.
Anche per questo non tutti nella regione hanno sostenuto “Open Balkan”. Apertamente contrario, ad esempio, è il premier kosovaro Albin Kurti, che ha più volte definito l'accordo “senza visione”, e che in passato ha espresso timori su quella che considera la posizione egemone della Serbia all'interno del progetto.
Al palo, per il momento, anche Montenegro e Bosnia Erzegovina, nonostante gli inviti ricevuti ad inserirsi nel nuovo spazio economico creato dagli accordi. Podgorica, probabilmente si sente ancora in grado di puntare direttamente all'UE, senza passare da “Open Balkan”. Per la Bosnia, invece, in costante crisi istituzionale e d'identità, qualsiasi iniziativa concordata tra le sue diverse anime sembra oggi una missione impossibile.
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