Secondo l'ex Ombudsman serbo Saša Janković, candidato alle elezioni presidenziali del 2 aprile, "L'Ue sta sacrificando la sicurezza di lungo termine per una stabilità di breve termine"
(Articolo pubblicato in partnership con l'Istituto Affari Internazionali)
Ieri sera a mezzanotte è scaduto il termine per la presentazione delle candidature alle elezioni presidenziali serbe del prossimo 2 aprile. Da oggi e per le prossime tre settimane (e oltre, in caso di un secondo turno il 16 aprile), una decina di candidati si contenderanno il posto di capo di Stato, attualmente occupato da Tomislav Nikolić.
Dato il ruolo sostanzialmente rappresentativo di questa figura all’interno del sistema istituzionale serbo, l’interesse della competizione è principalmente politico: “Un referendum pro e contro Aleksandar Vučić” per dirla con le parole di uno degli aspiranti presidenti. Il Primo ministro serbo, in carica dal 2014, ha deciso di giocarsi il tutto per tutto in questa tornata elettorale, candidandosi in prima persona alla successione del suo compagno di partito Nikolić, che i sondaggi vedevano in difficoltà davanti all’ipotesi di una rielezione. Se vincerà, Vučić potrà governare fino al 2022, mantenendo verosimilmente il controllo del potente Partito progressista serbo (Sns) e nominando un uomo di fiducia alla guida del governo. Se perderà, il paese vivrà invece un cambiamento radicale, che l’opposizione non esita a comparare alla caduta di Milošević.
Una finta democrazia
“La Serbia oggi è una finta democrazia, talmente finta che chi è al potere non si preoccupa nemmeno di nasconderlo”. L’accusa, pesantissima, viene da Saša Janković, l’ex Ombudsman serbo, oggi candidato indipendente alla presidenza. Seduto al quartier generale della sua campagna elettorale, al numero 9 di via Palmotićeva, Janković descrive un paese in cui “i cittadini hanno perso la loro dignità” e in cui “le istituzioni si sono svuotate di senso”. “L’unica legge che conta, oggi, è quella di chi è al governo e tutti gli elementi tipici della democrazia, dalla divisione dei poteri fino all’indipendenza dei media, passando per il libero mercato, sono incrinati o rotti”, denuncia il 46enne avvocato e giornalista serbo, in carica come Ombudsman (o difensore civico) dal 2007.
La sua candidatura, spiega, è “pre-politica”, ovvero volta a garantire “il rispetto delle regole del gioco”, prima ancora che ad imporre un programma elettorale. “Il presidente rappresenta l’unità della Serbia e i suoi valori costituzionali. Io intendo far rispettare quei principi in modo da garantire, su un altro livello, una corretta competizione politica”, assicura Janković, che ai partiti che hanno deciso di appoggiarlo ha chiesto “un sostegno incondizionato”, dicendo loro che “se vincerò, chi mi ha votato non avrà più diritti di chi ha votato contro di me”.
Dopo che un centinaio di intellettuali ed artisti hanno chiesto pubblicamente la candidatura dell’ex Ombudsman, alcune formazioni di opposizione come il Partito democratico (Ds) e il “Nuovo partito” dell’ex premier Zoran Živković gli hanno assicurato il proprio sostegno. Allo stesso tempo, però, il fronte anti-Vučić ha partorito anche altri aspiranti presidenti, come l’ex ministro degli Esteri Vuk Jeremić e l’ex ministro dell’Economia Saša Radulović, leader del movimento “Dosta je bilo” (“Ora basta”).
A destra dell’emisfero politico, il presidente del movimento nazionalista Dveri, Boško Obradović, l’esponente del Partito Democratico di Serbia (Dss) Aleksandar Popović o ancora l’immancabile Voijslav Šešelj, alla guida del Partito radicale serbo, hanno anch’essi raccolto le 10mila firme necessarie a gareggiare per la presidenza. Al primo turno, questa varietà di candidati potrebbe giocare a sfavore dell’attuale capo di governo, che punta ad ottenere più del 50% delle preferenze. In caso di ballottaggio il 16 aprile (data che coincide con la domenica di Pasqua), il risultato sarà invece determinato dal tasso di affluenza e dalla capacità dell’opposizione di convergere su un unico candidato.
L’uomo della stabilità
Aleksandar Vučić, stando ai sondaggi, rimane comunque il favorito. Alle ultime elezioni, il suo partito ha incassato oltre il 48% dei voti ed una vittoria al primo turno sembra dunque essere a portata di mano. Dalla sua parte, inoltre, Vučić può contare sulla visibilità che gli è assicurata dalla posizione di Primo ministro, a cui non ha rinunciato malgrado l’ormai iniziata campagna elettorale. Una scelta che la minoranza ha denunciato come “illiberale”, così come la decisione di sospendere i lavori del parlamento fino all’esito del voto, malgrado ci si prepari ad un’elezione presidenziale e non parlamentare. Ma se per l’opposizione pro-europea, questi fatti sono la prova della “finta democrazia” serba e dell’autoritarismo del suo leader, per i diplomatici occidentali di stanza a Belgrado, la situazione non è così grave. “E’ vero che per quanto riguarda la libertà di stampa c’è motivo di preoccupazione. Ma bisogna convenire che il governo serbo ha dato alcune risposte in quanto alla stabilità regionale e al processo di avvicinamento all’Unione europea”, afferma una fonte diplomatica, che preferisce mantenere l’anonimato.
“Spesso, i suoi oppositori sostengono che Vučić accetti dei compromessi senza crederci davvero, soltanto per accontentare l’Ue. Ma volendo essere un po’ pragmatici, mi verrebbe da dire: e allora? Quello che conta è che questi passi avanti vengano fatti!”, sostiene un altro diplomatico. Il dialogo con il Kosovo, la dichiarazione congiunta firmata con la presidente croata Grabar-Kitarović o ancora la visita a Srebrenica sono alcuni degli elementi positivi - forse più formali che sostanziali - che le cancellerie europee riconoscono al premier serbo. Ma per i detrattori di Vučić, si tratta di un approccio completamente sbagliato che confonde il piromane con il pompiere. “Vučić è presentato oggi esattamente come lo era Milošević negli anni Novanta: il negoziatore indispensabile. Ma in realtà, è lui stesso ad alimentare la minaccia dell’instabilità per poter restare al potere”, afferma Dejan Ilić, redattore a Fabrika Knjiga. “Si tratta dello stesso regime di vent’anni fa, né più né meno”, aggiunge Ilić, che ricorda come Vučić, Nikolić e la stessa presidente del parlamento, Maja Gojković, furono fino al 2008 membri del partito di estrema destra di Šešelj, anti-europeo e promotore di una grande Serbia.
A supporto delle sue affermazioni, Ilić cita quindi il caso del treno decorato con la scritta “il Kosovo è Serbia” e partito a metà gennaio da Belgrado in direzione di Mitrovica. Il premier serbo, ufficialmente estraneo all’iniziativa, ha ordinato al treno di fermarsi quand’era a pochi chilometri dal confine, scongiurando uno scontro e presentandosi come pacificatore. Ma poteva davvero non sapere della partenza del treno?
Tollerato dall’Ue
Se per Dejan Ilić la Serbia è ormai “un Far West” dove “tutto è possibile”, tanto che “non è da escludere l’eventualità che Vučić dichiari lo stato di emergenza se perde”, per Boško Jakšić, editorialista al quotidiano Politika, “quello che manca, nei Balcani, è l’Unione europea”. “Bruxelles ha a lungo praticato la politica del bastone e della carota, ma in questo momento ha perso sia il bastone che la carota”, afferma questo veterano del giornalismo serbo.
Nel suo ultimo tour dei Balcani, appena dieci giorni fa, l’Alto rappresentante dell'Ue per la politica estera, Federica Mogherini, ha dovuto fare i conti con diversi focolai di tensione, dalla volontà di Pristina di creare un esercito kosovaro alla sempre più grave crisi politica in Macedonia. A Belgrado, il parlamento è stato riaperto per l’occasione (dopo le “ferie” decise il giorno prima) per permettere alla responsabile della diplomazia europea di tenere un breve discorso. Boicottato dall’opposizione pro-europea, che intendeva così mostrare la sua contrarietà alla sospensione dell’attività legislativa, l’intervento della Mogherini è stato caratterizzato dai fischi e dalle urla dei radicali di Voijslav Šešelj, rispetto ai quali Aleksandar Vučić, impassibile tra le fila della maggioranza di governo, è apparso ancora una volta come l’unico interlocutore possibile.
“Tutti i problemi che la Serbia ha oggi portano l’etichetta: tollerato dall’Ue”, riprende il candidato Saša Janković, che descrive come segue il suo recente incontro con l’Alto rappresentante comunitario. “Ho detto a Mogherini che se Bruxelles continua a legittimare l’abuso della democrazia in Serbia sarò costretto a restituire i tre premi di ‘Europeo dell’anno’ che mi sono stati assegnati”, afferma l’ex Ombudsman, facendo riferimento al titolo di “Persona dell’anno” attribuitogli dalla missione Osce in Serbia nel 2011 e ai riconoscimenti che il Movimento europeo in Serbia gli ha conferito nel 2012 e nel 2015 in quanto “personalità che ha contribuito maggiormente alla causa europea”. “Così facendo, l’Ue sta infatti distruggendo la nostra prospettiva europea, perché i cittadini che sono sinceramente pro-europei finiranno col chiedersi, ma perché l’Unione approva tutto questo?”, prosegue Janković, che conclude: “Capisco che i problemi qui siano più grandi della Serbia, ma Bruxelles sta sacrificando la sicurezza di lungo termine per una stabilità di breve termine”. A forza di chiudere un occhio sui limiti della democrazia serba, l’Ue potrebbe ritrovarsi insomma con una nuova crisi macedone, ma questa volta a Belgrado.