Claudio Divizia/Shutterstock

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Per rispondere all'introduzione di forti dazi verso le merci serbe in Kosovo, il governo di Belgrado agita lo spettro di una catastrofe umanitaria a nord di Mitrovica. Il "processo di normalizzazione" tra Belgrado e Pristina sembra ormai solo un ricordo lontano

08/07/2019 -  Dragan Janjić Belgrado

La scorsa settimana le relazioni tra Belgrado e Pristina hanno toccato il punto più basso degli ultimi anni. La tensione è culminata con la decisione delle autorità di Belgrado di lanciare l’allarme sul rischio di “catastrofe umanitaria” nei comuni a maggioranza serba nel nord del Kosovo, e con le affermazioni di un rappresentante del ministero degli Esteri kosovaro, secondo cui Pristina avrebbe vietato l’ingresso nel territorio del Kosovo a tutti i politici serbi a causa della campagna che Belgrado starebbe conducendo contro Pristina.

Doneta Gashi, portavoce del governo kosovaro, ha prontamente smentito tali affermazioni, ma l’episodio ha agitato ulteriormente le acque, suscitando forti reazioni a Belgrado. Con mosse di questo tipo, le leadership di Belgrado e di Pristina stanno cercando di mostrare i muscoli davanti all’opinione pubblica locale, per migliorare il proprio rating tra gli elettori, soprattutto quelli di orientamento nazionalista.

Su iniziativa dell’Associazione degli imprenditori del nord del Kosovo, il 1 e il 2 luglio scorsi, sono rimasti chiusi tutti i supermercati e negozi all’ingrosso nei comuni a maggioranza serba nel nord del Kosovo, nonché numerose strutture turistiche, ferramenta, panetterie, farmacie, negozi di parrucchieri e officine meccaniche. L’iniziativa ha ricevuto forte sostegno da parte delle autorità di Belgrado e dei leader politici serbo-kosovari, ed è stata ampiamente promossa da alcuni tabloid e media mainstream serbi, vicini al governo di Belgrado. Nei giorni scorsi si è parlato molto, e si continua a parlare, di una possibile catastrofe umanitaria nel nord del Kosovo a causa della mancanza di farmaci, prodotti alimentari e altri beni di largo consumo.

I negozi nel nord del Kosovo hanno chiuso battenti per due giorni in segno di protesta contro i dazi del 100% imposti dal governo di Pristina sui prodotti provenienti dalla Serbia e dalla Bosnia Erzegovina. Le autorità kosovare hanno introdotto questa misura nel novembre dell’anno scorso con l’intento di costringere Belgrado a smettere di ostacolare Pristina nel suo tentativo di rafforzare la propria posizione a livello internazionale.

Le autorità di Belgrado considerano giustamente l’introduzione dei dazi del 100% come una violazione dell’accordo di libero scambio CEFTA e hanno imposto la sospensione dei dazi come precondizione per il proseguimento del dialogo con Pristina. La chiusura dei negozi e l’allarme lanciato da Belgrado sul rischio di una catastrofe umanitaria nel nord del Kosovo rappresentano, a quanto pare, una sorta di risposta ai dazi introdotti da Pristina, ovvero un tentativo di porre questa questione all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Tuttavia, l’iniziativa non ha sortito alcun effetto perché le autorità kosovare sono rimaste irremovibili nel non voler revocare i dazi, mentre la comunità internazionale si è astenuta dal reagire.

I serbi del nord del Kosovo e le autorità di Belgrado hanno cercato di porre rimedio alla situazione intensificando i traffico di merci attraverso i cosiddetti valichi di frontiera alternativi tra Kosovo e Serbia, dove non ci sono controlli doganali. Le autorità kosovare, come c’era da aspettarsi, hanno interpretato questa azione come un tentativo di contrabbando, bloccando i valichi alternativi.

Belgrado sostiene che la polizia kosovara, durante l’intervento ai valichi, abbia sparato a un furgone. Nel frattempo, le autorità di Pristina hanno inviato nel nord del Kosovo diversi camion carichi di beni di prima necessità, ma popolazione locale si è rifiutata di acquistare questa merce. Riassumendo, il principale messaggio che i serbi del nord del Kosovo hanno voluto inviare è che vogliono merci provenienti dalla Serbia, senza però che queste merci vengano sottoposte ai dazi del 100% che le rendono oggi non competitive.

Dazi doganali e crisi umanitaria

Le autorità Belgrado e i serbi del Kosovo difficilmente riusciranno a convincere l’opinione pubblica internazionale dell’esistenza di un reale rischio di una catastrofe umanitaria nel nord del Kosovo, perché è presenteun’offerta di merci sul mercato kosovaro ed esistono diversi modi per farle arrivare ai consumatori, ma alle condizioni dettate da Pristina. Non è vero quindi che nel nord del Kosovo manchino del tutto farmaci e prodotti alimentari: mancano solo farmaci e alimenti provenienti dalla Serbia. Inoltre, nelle enclavi serbe situate nella parte centrale del Kosovo vivono più serbi che nei comuni nel nord del Kosovo, eppure in queste enclavi non c’è alcuna crisi umanitaria. I negozi lavorano normalmente e la distribuzione di merci avviene nel rispetto delle norme vigenti sull’intero territorio del Kosovo.

Un altro aspetto da sottolineare è che nell’Accordo di Bruxelles, sottoscritto dall’attuale leadership politica serba, il Kosovo è definito come uno spazio economico unico. Da questo punto di vista quindi non c’è alcun motivo per cui in una parte del Kosovo debba verificarsi una drammatica carenza di generi di prima necessità, mentre in altre parti del paese la distribuzione di merci avviene senza alcun problema. Come previsto dall’Accordo di Bruxelles, gli organi doganali, giudiziari e di pubblica sicurezza nel nord del Kosovo sono stati trasferiti sotto la competenza delle autorità di Pristina, il che significa che queste ultime hanno il potere di aumentare o ridurre le tariffe doganali e di inviare i funzionari doganali e le forze di polizia al confine con la Serbia per impedire che le merci vengano importate nel territorio kosovaro senza il pagamento dei dazi dovuti.

In parole povere, la decisione del governo di Pristina di introdurre i dazi del 100% è una cattiva decisione, politicamente motivata, ma non è possibile negarne la legittimità. Belgrado sta cercando di rispondere all’introduzione dei dazi – che considera come una violazione dell’accordo CEFTA – violando a dua volta gli Accordi di Bruxelles, ma è poco probabile che ottenga il sostegno delle potenze mondiali per proseguire su questa strada. Il governo serbo ha praticamente ammesso che sta cercando di facilitare l’importazione illegale di merci serbe nel territorio del Kosovo attraverso i valichi di frontiera alternativi. Marko Đurić, capo dell’Ufficio per il Kosovo del governo serbo, ha reagito duramente alle misure intraprese da Pristina per impedire questo tipo di traffico, accusando le autorità kosovare di sparare contro i camion che cercano di entrare in Kosovo.

Anche il presidente serbo Aleksandar Vučić ha usato toni simili, chiedendosi in che modo, se non attraverso i valichi di frontiera alternativi, i serbi del Kosovo possano procurarsi i beni di prima necessità se non è possibile far entrare le merci serbe nel territorio kosovaro attraverso i valichi di frontiera ufficiali senza pagare alti dazi doganali. La strategia scelta dal governo di Belgrado è probabilmente vista di buon occhio dai suoi sostenitori in Serbia, perché dimostra che il governo sta cercando di compiere passi concreti, ma finora non ha sortito alcun risultato, e difficilmente lo farà in futuro. Del resto, i negozi nel nord del Kosovo sono stati chiusi solo due giorni, per cui l’intera iniziativa è rimasta, almeno per ora, limitata al tentativo di porre all’attenzione dell’opinione pubblica problemi legati all’introduzione dei dazi sui prodotti serbi.

L’acuirsi della tensione

Ad ogni modo, le speculazioni sulla presunta crisi umanitaria nel nord del Kosovo contribuiranno a un ulteriore peggioramento delle relazioni tra Belgrado e Pristina e incideranno negativamente sulla possibilità di proseguire i negoziati bilaterali. Oggettivamente, entrambe le parti già da qualche tempo stanno lavorando intensamente per aumentare le tensioni. Mentre il governo kosovaro e il sempre più influente premier Ramush Haradinaj con l’introduzione dei dazi sui prodotti serbi hanno voluto dimostrare agli elettori kosovari che il Kosovo sta diventando sempre più forte ed è in grado di sfidare Belgrado, il governo serbo sta sfruttando la vicenda della presunta crisi umanitaria nel nord del Kosovo per far credere all’opinione pubblica locale di lottare con tutte le forze per i serbi del Kosovo.

C’è da aspettarsi che i politici kosovari, e soprattutto gli esponenti dell’opposizione, inizino ad interpretare le speculazioni sulla crisi umanitaria nel nord del Kosovo come parte integrante del tentativo del governo di Belgrado e dei politici serbo-kosovari di legare ulteriormente i comuni a maggioranza serba nel nord del Kosovo alla Serbia e di allontanarli dal Kosovo, preparando così il terreno per uno scambio di territori e una ridefinizione del confine tra i due paesi. Qualora la crisi nei rapporti bilaterali tra Belgrado e Pristina dovesse proseguire, le principali potenze mondiali dovranno assumere una posizione più chiara al riguardo. Le autorità di Pristina senz’altro si aspettano di ottenere un forte sostegno per il mantenimento dell’integrità territoriale del Kosovo.

L’acuirsi delle tensioni tra Serbia e Kosovo è una conseguenza del fatto che i negoziati sulla normalizzazione delle relazioni tra i due paesi sono in una fase di stallo e non c’è da aspettarsi che la comunità internazionale in un prossimo futuro intraprenda alcuna seria azione per sbloccare la situazione. L’Unione europea è ancora formalmente il principale mediatore nei negoziati tra Belgrado e Pristina, ma probabilmente non intraprenderà alcun passo concreto prima della fine dell’anno. L’anno prossimo dovrebbero tenersi anche le elezioni parlamentari in Serbia, elemento che potrebbe ostacolare la ripresa dei negoziati.

Tenendo conto del fatto che si parla con sempre maggiore insistenza della necessità di coinvolgere nei negoziati anche gli Stati Uniti, è del tutto possibile che non venga fatto alcun passo avanti nei negoziati prima delle prossime elezioni presidenziali statunitensi. Tutto sommato, Belgrado e Pristina per ancora un anno, se non di più, saranno tenute sotto una sorta di sorveglianza da parte della comunità internazionale, che potrebbe intraprendere azioni più serie solo nel caso in cui la tensione tra Kosovo e Serbia dovesse salire tanto da rischiare di far scoppiare un nuovo conflitto tra i due paesi.