Slavko Ćuruvija - foto su gentile concessione della Fondazione Slavko Ćuruvija  / Predrag Mitic

Era stato freddato 20 anni fa davanti alla sua abitazione a Belgrado. Ora arriva la condanna in primo grado, per l'omicidio del giornalista ed editore Slavko Ćuruvija, a 4 ex membri dei servizi segreti serbi. Secondo i giudici fu omicidio di stato

08/04/2019 -  Dragan Janjić Belgrado

Quattro anni dopo l’inizio del processo per l’omicidio del giornalista ed editore Slavko Ćuruvija e vent’anni dopo il delitto, avvenuto davanti all’abitazione di Ćuruvija, la Sezione speciale per i reati di criminalità organizzata dell’Alta corte di Belgrado ha condannato quattro imputati, ex membri dei servizi segreti serbi, ad un totale di 100 anni di reclusione. Si tratta della prima sentenza di condanna per omicidio di un giornalista emessa a carico di ex agenti dei servizi segreti. Con questa sentenza la corte ha confermato che l’omicidio di Ćuruvija fu un delitto di stato. Dagli anni Novanta ad oggi in Serbia sono stati brutalmente uccisi altri due giornalisti Dada Vujasinović e Milan Pantić. Questi omicidi rimangono a tutt’oggi irrisolti.

L’ex capo dei servizi segreti serbi Radomir Marković è stato condannato a 30 di reclusione per l’omicidio Ćuruvija, e la stessa pena è stata comminata anche a Milan Radonjić, all’epoca dei fatti capo dell’ufficio dei servizi segreti di Belgrado. I due ex agenti dei servizi segreti Ratko Romić e Miroslav Kurak, sono stati invece condannati a 20 anni di reclusione ciascuno. Radomir Marković sta già scontando una pena di 40 anni di reclusione per concorso nell’omicidio dell’ex presidente serbo Ivan Stambolić e nel tentato omicidio di Vuk Drašković, leader del Movimento serbo di rinnovamento (SPO, principale partito di opposizione negli anni Novanta), nonché per l'omicidio di quattro funzionari dell’SPO. Miroslav Kurak è stato giudicato in contumacia in quanto latitante.

Si tratta di una sentenza di primo grado e i condannati probabilmente faranno ricorso in appello, ma riveste comunque grande importanza perché conferma che durante il regime di Slobodan Milošević le istituzioni statali e i servizi di sicurezza furono direttamente coinvolti negli omicidi di persone sgradite al potere, compresi i giornalisti. Tuttavia, non è ancora stata fatta piena luce sui mandanti dell’omicidio di Ćuruvija. È difficilmente immaginabile che Radomir Marković avesse ideato e organizzato l’omicidio da solo, perché i servizi segreti, di cui Marković era capo, erano sotto il diretto controllo dell’allora maggioranza di governo, guidata da Slobodan Milošević. Marković è stato condannato come mandante dell’omicidio, ma anch’egli probabilmente agiva per ordine di qualcuno.

“I mandanti, persone che tutti noi riteniamo fossero i mandanti, non sono mai stati citati né accusati ufficialmente, e per questo motivo io e la mia famiglia non potremo mai essere pienamente soddisfatti. Tuttavia, credo che questo sia un grande giorno, un giorno importante per me, ma anche per il nostro paese. Perché oggi il collegio giudicante ha inviato un chiaro messaggio alla società, allo stato e ai giornalisti, ed è da questa prospettiva che guardo alla sentenza”, ha dichiarato Jelena Ćuruvija , figlia di Slavko Ćuruvija. I mandanti ai quali si riferiva sono, secondo un’opinione condivisa da molti, i membri della famiglia Milošević, ma dal momento che non vi è alcuna prova materiale né testimonianza che attesti il loro coinvolgimento nell’omicidio, non si è potuto procedere penalmente nei loro confronti.

Radonjić, Kurak e Romić sono stati condannati per aver partecipato all’organizzazione dell’omicidio di Ćuruvija, ma non si conosce ancora l’identità dell’esecutore materiale del delitto, ovvero della persona che uccise Ćuruvija sparandogli alla testa da dietro. Marković sicuramente conosce la verità sull’esecutore e sui veri mandanti dell’omicidio, ma sia lui che Radonjić hanno deciso di tacere. È evidente che tra gli ex membri dei servizi segreti regna ancora una sorta di omertà, ma questa sentenza dimostra che non hanno più alcuna influenza sull’operato delle istituzioni statali. Questo era già emerso nel 2008, quando Radomir Marković fu condannato per tentato omicidio di Vuk Drašković. Marković finirà di scontare questa condanna nel 2041, all’età di 90 anni.

Pressioni

Il presidente serbo Aleksandar Vučić al tempo dell’omicidio Ćuruvija era ministro dell’Informazione e un fervente sostenitore della linea dura contro i media non allineati al potere. In quel periodo i media indipendenti venivano puniti con sanzioni draconiane allo scopo di portarli alla bancarotta. Tra i principali bersagli di questa strategia furono i giornali di Slavko Ćuruvija, Evropljanin e Dnevni telegraf. Jelena Ćuruvija ritiene che Vučić sia in parte responsabile dell’omicidio di suo padre e sottolinea che nel periodo precedente all’omicidio i giornali di suo padre furono oggetto di sanzioni draconiane.

Vent’anni dopo l’omicidio, Vučić sembra uscire vincitore dall’intera vicenda perché durante la sua presidenza è stato fatto un importante passo in avanti verso l’accertamento della verità. Vučić ha ammesso di aver fatto degli errori come ministro dell’Informazione, sostenendo tuttavia di non essere stato al corrente dei preparativi dell’omicidio perché tali “azioni” venivano organizzate all’interno di una ristretta cerchia di fedelissimi di Milošević, alla quale lui non apparteneva. Vučić non ha mai smesso di scagliarsi duramente contro i giornalisti e i media il cui modo di fare informazione non gli piace, ma le autorità hanno fatto passi avanti per quanto riguarda la protezione dei giornalisti.

Da qualche anno è attivo anche il Gruppo di lavoro permanente per la protezione dei giornalisti , composto da rappresentanti del ministero dell’Interno, della procura e delle associazioni dei giornalisti. Il gruppo è stato istituito con l’obiettivo di facilitare la comunicazione tra gli organi competenti e i giornalisti sottoposti a minacce e attacchi, nonché di contribuire alle indagini e di incoraggiare i giornalisti a denunciare le minacce ricevute. Il sistema funziona abbastanza bene e risulta efficace nei casi di esplicite minacce all’incolumità dei giornalisti, ma non è grado di proteggerli dalle dure campagne denigratorie che la leadership al potere – compresi i più alti funzionari statali – e i media filogovernativi conducono incessantemente contro i media indipendenti.

Gli attacchi ai giornalisti non cessarono con la caduta del regime di Milošević. Nel 2001 fu ucciso il giornalista Milan Pantić, mentre nel 2007 sotto la finestra dell'abitazione del giornalista del settimanale Vreme Dejan Anastasijević furono piazzate due bombe col chiaro intento di ucciderlo. L’anno scorso è stata data alle fiamme la casa di Milan Jovanović, giornalista del portale Info Žig di Grocka nei pressi di Belgrado. Come mandante dell’atto intimidatorio è stato identificato il sindaco di Grocka Ljubodrag Simonović, che aveva già minacciato Jovanović diverse volte. L’omicidio di Milan Pantić non è mai stato risolto; resta ignota anche l’identità dell’autore dell’attacco dinamitardo ai danni di Dejan Anastasijević, mentre il caso dell’attacco contro Jovanović non è ancora giunto a un epilogo giudiziario.

Gli attacchi e diverse tipi di minacce a cui sono sottoposti i giornalisti e media indipendenti in Serbia sono parte integrante di un sistema di pressioni finalizzate a imbavagliare l’informazione libera. Ed è per questo che le associazioni dei giornalisti serbi insistono sulla necessità che le autorità competenti indaghino su ogni caso di minacce e pressioni contro i giornalisti e media. Così facendo lo stato dimostrerebbe di essere pronto a proteggere i giornalisti. La polizia reagisce tempestivamente alle segnalazioni di attacchi contro i giornalisti, ma raramente si giunge a un epilogo giudiziario. Le campagne condotte contro i media e giornalisti indipendenti hanno forti ripercussioni sulla situazione del giornalismo nel paese, ma questo problema non può essere risolto dalla polizia né tanto meno dalla procura. In breve, i giornalisti serbi sono soddisfatti per le sentenza nel processo per l’omicidio Ćuruvija, ma non sono nemmeno lontanamente soddisfatti delle condizioni in cui lavorano.