Un’ottima notizia l’arresto di Ratko Mladić, ma all’Unione europea non basta. La strada di Belgrado verso Bruxelles si è solo accorciata, ma resta ancora lunga. La soluzione del nodo del Kosovo tra le priorità
Brava Serbia, ma Ratko Mladić non basta. È questo il messaggio che arriva da Bruxelles alla luce dell'arresto e trasferimento al Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia (Tpi) dell'Aja del ricercato numero uno per il genocidio di Srebrenica: per entrare nell'Unione europea, Belgrado deve fare un passo anche sul Kosovo.
All'annuncio della cattura dell'ex generale serbo bosniaco, il 26 maggio, il presidente serbo Boris Tadić non ha usato mezzi termini. “L'arresto ha aperto le porte dell'Unione europea alla Serbia,” ha detto. Il 6 giugno, volato a Bruxelles per ricevere i complimenti di persona dal presidente Ue Herman Van Rompuy, Tadić ha illustrato quello che si aspetta in cambio: status di Paese candidato “entro quest'anno” e apertura dei negoziati di adesione “all'inizio dell'anno prossimo,” giusto in tempo per permettere al suo governo di presentarsi alle elezioni 2012 con un bel successo in tasca. Una tabella di marcia che – se venissero rispettati i tempi seguiti dalla vicina Croazia - permetterebbe alla Serbia di entrare nel club europeo nel 2020.
Ad ottobre la decisione sulla candidatura di Belgrado
La Commissione europea dovrebbe esprimersi sulla ricevibilità della candidatura all'Ue della Serbia il 10 ottobre, lasciando al vertice dei capi di Stato e di governo di dicembre la decisione di conferire a Belgrado lo status di Paese candidato – e magari di fissare anche la data di avvio dei negoziati di adesione.
Ma il commissario Ue all'Allargamento, Štefan Füle, ha lasciato intendere che la via non è ancora spianata. “Se mi chiedete se la Serbia oggi è più vicina all'Europa rispetto a ieri, la risposta è assolutamente sì. Ma questo non vuol dire che la lista dei compiti da svolgere… sia stata eliminata: è stata solamente accorciata di un punto,” ha spiegato il commissario ceco. Restando nel vago, Füle ha chiesto di “intensificare il lavoro sulle riforme,” oltre a lanciare un appello affinché venga stanato l'ultimo fuggitivo dal Tpi, l'ex leader serbo croato Goran Hadžić.
Sotto osservazione per i visti Schengen
Una questione su cui la Serbia continua a rimanere sotto osservazione riguarda i visti per l'area Schengen. Dopo la loro abolizione nel dicembre 2009, Belgio e Svezia si sono ripetutamente lamentati di essere stati sommersi da migliaia di richieste d'asilo infondate da parte di serbi e macedoni, che ingolfano e sovraccaricano i costi della loro burocrazia. “I Paesi dei Balcani occidentali devono assumersi la responsabilità dei propri cittadini,” ha dichiarato all'ultima riunione dei ministri degli Interni Ue, il 9 giugno, lo svedese Tobias Billstrom, sottolineando come non ci possano essere sedicenti perseguitati in Paesi che chiedono di entrare nell'Ue.
Ma il punto più delicato, spiegano un paio di diplomatici coperti dall'anonimato, è un altro. “La cattura di Mladić è un pezzo importante del puzzle, ma non l'unico,” dice uno di loro, indicando il Kosovo come l'incastro mancante. Quest'anno, l'Unione europea è riuscita a far sedere Belgrado a un tavolo con Pristina – chiarendo che lo sviluppo di “rapporti di buon vicinato,” a prescindere dalla questione irrisolta dello status, era una condizione irrinunciabile per avanzare verso Bruxelles. In quest'ottica, dovrebbero essere affrontati i problemi che, per esempio, impediscono ai prodotti kosovari di essere esportati attraverso le dogane serbe.
Il nodo del Kosovo va sciolto
Ma il cosiddetto “dialogo,” partito a marzo, finora non ha portato a nulla. E i diplomatici di Bruxelles dicono che la colpa è di Belgrado. “Sul tavolo ci sono cinque o sei accordi tecnici ai quali manca solo la firma della Serbia,” spiegano. E ammoniscono: “ci aspettiamo dei passi in avanti concreti prima della pausa estiva.” Il messaggio, a quanto pare, è stato recepito: a Bruxelles, Tadić ha promesso che il dialogo con Pristina produrrà dei risultati “nei prossimi 30, 40 giorni.” Ed ha assicurato che la Serbia “non ha alcun interesse” a complicare la vita dei kosovari albanesi, ma vuole mantenere fermo il principio di non riconoscimento della sua ex provincia, “sia esplicitamente che implicitamente.”
Per questo il presidente serbo continua a boicottare gli appuntamenti internazionali dove il Kosovo viene invitato come Paese sovrano – il vertice di Varsavia con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama il 28 maggio o i festeggiamenti per il 150esimo anniversario dell'Italia, il 2 giugno a Roma. Su questo, l'Europa è costretta a chiudere un occhio: non potrebbe far altro, viste le sue contraddizioni interne. Infatti sullo status del Kosovo - e di rimando sullo status della presenza Ue a Pristina - si continua a litigare a Bruxelles. Con la Gran Bretagna che chiede di dare in mano al futuro inviato dell’Unione una vera e propria ambasciata Ue, mentre Spagna e gli altri quattro Stati Ue che non riconoscono Pristina chiedono che si resti all'attuale “ufficio di collegamento.” La querelle, ancora irrisolta, ha ritardato di un paio di settimane la nomina del diplomatico italiano Fernando Gentilini, chiamato a rappresentare l'Ue a Pristina per tre mesi, nell'attesa che si completino le procedure per scegliere un Inviato Speciale con pieno mandato.