Darko Sokovic

Un documentario fuori dagli schemi. Un viaggio personale e collettivo in alcuni luoghi simbolo dei conflitti balcanici degli anni '90. Forbici e rasoio alla mano. Uscirà nei prossimi mesi "Splitting hairs", del giovane regista belgradese Darko Soković. In anteprima per i lettori di OBC il trailer e un'intervista all'autore

05/01/2010 -  Francesco Gradari

Finito di girare nel 2008, "Splitting hairs", (della durata di circa settanta minuti), è il primo prodotto del DKQ - Dokumentarischer Kinoquadrant - organizzazione no-profit con sede a Belgrado ideata e diretta dal ventiquattrenne Soković. Lo schema seguito nel documentario è semplice e al contempo geniale. Il regista serbo raggiunge sei città della ex Jugoslavia, tutte teatro di eccidi e di violenze operate nel recente passato con il coinvolgimento delle forze serbe. In ogni città Soković racconta un pezzo della propria storia, dei ricordi che lo legano a quella realtà. Per entrare poi nel negozio di un barbiere e, fra un'aggiustata ai capelli e una rasatura, lasciare che sia la città a parlare di sé.

Quali sono state le diverse tappe toccate dalle riprese e perché ha scelto proprio queste città?

Peć, Pristina, Vukovar, Dubrovnik, Sarajevo, Sanski Most e, infine, ancora Vukovar. Ognuna di queste città ha contribuito alla mia crescita e ha rappresentato un passaggio importante della mia vita, in termini di affetti personali. E' stato un viaggio dentro me stesso e al contempo dentro la violenza che negli ultimi vent'anni ha sconvolto la mia regione. Ho avvertito il bisogno di conoscermi meglio e di rivisitare la storia recente del mio popolo. E per farlo sono tornato di persona in quei luoghi, mi sono fatto radere barba e capelli e mi sono messo all'ascolto dei barbieri del posto. A Sarajevo ho potuto contare su una parrucchiera d'eccezione, Amina Begović, già protagonista di 'No man's land'.

Qual è stato l'episodio più toccante avvenuto durante le riprese?

Senza alcun dubbio il momento più intenso dal punto di vista emotivo è stato l'incontro con il barbiere di Pristina. Mi sono recato presso la sua bottega il giorno dopo la festa della dichiarazione di indipendenza. Il barbiere mi ha accolto e fatto sedere. Mentre mi faceva barba e capelli, mi ha raccontato per più di mezzora le atrocità commesse dalle forze serbe ai danni della sua famiglia e dei suoi cari nel corso degli anni Novanta. Il tutto senza giudicarmi o criticarmi per il fatto di essere serbo. Semplicemente, un uomo che raccontava le sue sofferenze ad un altro uomo. Per tutto il tempo del racconto ho avuto le sue forbici e il suo rasoio su di me. A un certo punto, nel radermi, mi ha leggermente tagliato all'altezza della gola. Subito mi ha disinfettato. Mi sono commosso nel vedere con che premura lo facesse. Personalmente ritengo di aver appreso più cose sul conflitto serbo-albanese in quella mezzora che in tutti i miei studi precedenti. Anche il passaggio a Sarajevo è stato significativo. Girando per la città il mio sguardo finiva sempre col fermarsi sulle colline. Non riuscivo, e non riesco tuttora, a capire come sia stato possibile vivere nell'assedio. E il mio pensiero si soffermava sulla responsabilità politica di quello che è successo.

Le riprese hanno quindi rappresentato una sorta di catarsi?

Assolutamente sì. Credo che questo film rappresenti una catarsi per me, per il pubblico che deciderà di vederlo e anche per le persone che sono state intervistate. E questo grazie al fatto che siamo riusciti a creare uno spazio aperto, protetto e allo stesso tempo libero da stereotipi e pregiudizi, nel quale le persone hanno potuto aprirsi e parlare di sé, buttando fuori tutto quello che tenevano ancora dentro.

Qual è stato invece il momento più divertente?

Sempre a Pristina, sempre lo stesso barbiere. Continuava a scusarsi con me per il suo serbo che da dieci anni non utilizzava praticamente più e che di conseguenza era un po' arrugginito. Io gli ripetevo che capivo tutto quello che mi stava dicendo, e che la sua parlata era assolutamente priva di inflessioni. Tranquillizzatosi, mi confidò che a casa con sua moglie, quando non volevano farsi capire dai loro bambini, parlavano tra di loro in serbo. Per me è stata una vera e propria rivelazione scoprire che degli albanesi adulti utilizzano il serbo nel più intimo della loro vita familiare e domestica. Ma ancora più incredibile è stato lo scoprire in seguito che tante altre persone in Kosovo adottano questa pratica!

Il progetto è stato reso possibile grazie a un finanziamento di cinquemila dollari del National Endowment for Democracy (Agenzia del Congresso degli Stati Uniti)...

Il budget era talmente limitato che per ridurre al minimo le spese ho utilizzato tutti i contatti e le conoscenze che avevo. Nelle diverse città toccate dalle riprese siamo stati ospiti di parenti, amici e conoscenti. E abbiamo girato da una città all'altra sempre con mezzi pubblici.

L'uscita di "Splitting hairs" è stata rimandata diverse volte e il documentario avrebbe dovuto essere pronto già per quest'anno. Dietro questi rinvii c'è forse un po' di timore, una paura di uscire allo scoperto in relazione a temi così scottanti?

"No, non è questa la ragione. Il vero problema sono io. Questo documentario mi ha costretto a mettermi a nudo, a ripercorrere delle vicende della mia vita privata. E' stato difficile esporsi completamente e rivedere la propria vita. Tutto ciò ha condotto a episodi, anche banali, che hanno comunque influito sul prodotto finale. Ad esempio, mi sono accorto che stavo tagliando alcune scene solo perché mi vedevo troppo grasso. Sebbene sia stato io a volere e ideare questo documentario, ci è voluto del tempo per ritrovarmi in quello che stavo facendo. Durante le riprese non ho mai avvertito pericoli per la mia sicurezza personale. Ho avuto solo qualche esitazione a Peć. Lì abbiamo girato nel giorno della dichiarazione di indipendenza. Ero nel bel mezzo della piazza principale della città, invasa da albanesi in festa. L'atmosfera era molto calda. Non ho avvertito minacce contro la mia persona, ma ho trovato il tutto abbastanza violento. A un certo punto mi sono ritrovato fianco a fianco con un signore che imbracciava un fucile e sparava colpi in aria per festeggiare.

La promozione del film è già iniziata in Serbia e tu sei già stato ospite di diversi salotti televisivi di primo piano. La reazione che il pubblico potrà avere alla visione del documentario resta tuttavia un'incognita...

L'atmosfera ora è cambiata in Serbia. Il clima non è più quello del 2008, al tempo delle riprese. All'epoca, la questione del Kosovo era ancora in sospeso e la retorica nazionalista era arrivata a livelli che non lasciavano presagire nulla di buono. Non so se piacerà, ma sono convinto che la pellicola desterà interesse, perché, partendo da storie individuali, affronta temi scottanti e legati alla propaganda politica. Ognuno ha le sue sofferenze da raccontare e nessuno può negarne l'esistenza. Un mio caro collega ha voluto ad ogni costo aiutarmi nella produzione, sebbene abbia una visione del mondo totalmente diversa dalla mia. Mi ha detto di averlo fatto solamente perché riteneva corretto il modo in cui si era lasciato spazio al dolore delle persone.

Il documentario, interamente in lingua serba, verrà tradotto anche in inglese e in albanese, per garantirne un'ampia diffusione. E' prevista quindi una diffusione anche in Kosovo del documentario?

Il documentario verrà trasmesso da emittenti televisive di tutta la regione. Inoltre, saranno disponibili delle copie cd e verranno organizzati percorsi nelle scuole e dibattiti aperti alla cittadinanza (per info: sokovic@dokukino.org, www.dokukino.org ). In Kosovo, più che da qualsiasi altra parte nei Balcani, è molto difficile essere solo te stesso, dimenticando e lasciando da parte, anche solo per un attimo, il tuo passato e la tua nazionalità. Anche in Kosovo, tuttavia, i tempi sono ora maturi per aprire un dibattito sul passato e sulla memoria. Fino ad ora questi temi sono stati dei veri e propri tabù che nessuno ha mai avuto il coraggio di toccare e infrangere. Concordo con chi sostiene che ci sono delle cose di cui un serbo e un albanese possono parlare più liberamente di quanto possano fare due albanesi o due serbi tra di loro.