Condannato in appello presso il Tribunale internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia, il leader del Partito radicale serbo si vanta dei crimini commessi e occupa un seggio in parlamento. Nonostante la legge non lo consenta
Con la sentenza emessa l’11 aprile scorso, la Corte d’appello del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPI) all’Aja ha condannato il leader del Partito radicale serbo Vojislav Šešelj a 10 anni di detenzione, riconoscendolo colpevole per capi d’accusa riguardanti crimini contro l’umanità. Con questa decisione la Corte d’appello ha parzialmente ribaltato la sentenza di primo grado emessa nel marzo 2016, con cui il Tribunale dell’Aja aveva assolto Šešelj per tutti i capi d’accusa che gli venivano contestati.
Così si è giunti al termine di un processo, avviato nel 2006, che verrà ricordato per le numerose stranezze e controversie che lo hanno caratterizzato.
Una di esse riguarda la durata del processo e del periodo trascorso dall’imputato in stato di detenzione. Vojislav Šešelj si era consegnato volontariamente al Tribunale dell’Aja nel 2003, trascorrendo in carcere più di tre anni in attesa del processo, iniziato solo alla fine del 2006, ed è stato rilasciato nel 2014 per motivi di salute. La Corte d’appello ha quindi condannato Šešelj a una pena detentiva che egli ha già scontato.
Appresa la notizia della condanna, Šešelj ha dichiarato di essere orgoglioso di tutti i crimini di guerra e contro l’umanità che gli venivano attribuiti e di essere pronto a ripeterli in futuro. Ha inoltre affermato che la sentenza d’appello è illegittima e che intende impugnarla.
“A Hrtkovci non c’è spazio per i croati”
Šešelj è stato dichiarato colpevole di “incitamento alla persecuzione (dislocamento forzato), deportazione e altri atti disumani (trasferimento forzato di popolazione), nonché di crimini contro l’umanità e persecuzioni (violazione del diritto alla sicurezza personale), e di crimini contro l’umanità commessi a Hrtkovci, in Vojvodina.
Il 6 maggio 1992, Šešelj tenne un discorso nel villaggio di Hrtkovci, a poca distanza dal confine che separa la Serbia dalla Croazia, durante il quale dichiarò che “a Hrtkovci non c’è spazio per i croati”, minacciando: “Se non se ne vanno da soli, li porteremo al confine della terra serba. Da lì dovranno proseguire a piedi”.
Rivolgendosi alla platea dei suoi sostenitori, concluse il discorso dicendo: “Sono convinto che voi serbi di Hrtkovci e di altri villaggi limitrofi saprete preservare la concordia e l’unità reciproca, e che molto presto vi libererete dei croati rimasti nei vostri villaggi e nei dintorni”.
Questo discorso è considerato il primo atto di una vasta campagna di espulsione dei croati da Hrtkovci e da altri villaggi e città della Vojvodina. La registrazione del comizio di Hrtkovci è stata una delle principali prove addotte dall’accusa nel processo a carico di Šešelj davanti al Tribunale dell’Aja.
La Corte d’appello ha confutato anche la conclusione paradossale contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui la procura del Tribunale dell’Aja non ha provato che, nel periodo compreso tra il 1991 e il 1993, “la popolazione civile non serba fosse esposta a un attacco diffuso e sistematico in gran parte della Croazia e della Bosnia Erzegovina”.
Nella motivazione della sentenza d'appello , letta dal giudice Theodor Meron, si precisa che “nessun giudice ragionevole avrebbe potuto concludere che non vi era stato un diffuso e sistematico attacco contro la popolazione civile non serba in Croazia e in Bosnia Erzegovina”.
Partendo da queste premesse, la Corte d’appello ha modificato quella parte della sentenza di primo grado emessa nei confronti di Šešelj nella quale il collegio giudicante, presieduto dal giudice Jean-Claude Antonetti, aveva contestato – con l’eccezione della giudice Flavia Lattanzi – l’esistenza di numerosi crimini già accertati in altre sentenze emesse dal Tribunale dell’Aja.
Si può supporre che la conclusione del processo a carico di Vojislav Šešelj e la pronuncia della sentenza definitiva abbiano portato sollievo alla maggior parte dei protagonisti di questo procedimento.
Nel corso del processo, Šešelj aveva trasformato l’aula del tribunale in un palcoscenico dove, difendendosi da solo, era riuscito a far modificare il collegio di primo grado, e per aver rivelato il nome di un testimone era stato condannato, in un processo separato, a oltre 4 anni di detenzione.
Aveva anche intrapreso uno sciopero della fame e, pur essendo gravemente malato, si era rifiutato di sottoporsi alla chemioterapia, mentre durante le udienze non aveva mai perso occasione per insultare, nel più volgare dei modi, chiunque ritenesse suo avversario – dai giudici e procuratori ai suoi oppositori politici.
È stato l’unico imputato del Tribunale dell’Aja a cui è stato permesso di non essere presente in aula durante la lettura della sentenza. Ha aspettato a Belgrado sia la sentenza di assoluzione di primo grado, emessa nel 2016, sia la recente sentenza d’appello.
Nessun commento da parte delle autorità di Belgrado
La sentenza di condanna di Šešelj non ha destato una particolare attenzione dell’opinione pubblica serba, se non il giorno in cui è stata pronunciata.
Il presidente serbo Aleksandar Vučić, che quotidianamente appare in pubblico, non ha commentato la sentenza di condanna a carico del suo “padre politico”. Durante gli anni Novanta, Vučić è stato uno dei più stretti collaboratori di Šešelj, fino a quando, nel 2008, non è passato al Partito progressista serbo, di cui è attualmente leader.
Due anni fa, quando Šešelj è stato assolto in primo grado, Vučić ha dichiarato che “fin dall’inizio era chiaro che si trattava di un processo politico”.
Anche una parte dell’opinione pubblica serba – compresi i sostenitori della giustizia transizionale – ritiene che certe sentenze del Tribunale dell’Aja siano frutto di decisioni politicamente motivate.
La sentenza d’appello con cui Šešelj è stato condannato a 10 anni di detenzione, che ha già scontato nel carcere di Scheveningen, è stata commentata da molti come un tentativo di “salvare l’onore” del Tribunale, compromesso dalla controversa sentenza di assoluzione ma anche come un’ulteriore prova delle posizioni antiserbe delle “grandi potenze”.
Gli esperti sono divisi tra quanti affermano che la condanna di Šešelj costituisce ora un importante precedente, in quanto un cittadino della Serbia è stato condannato per aver commesso crimini nel territorio non coinvolto dalle operazioni di guerra, e quanti invece ritengono che la giustizia sia solo parzialmente soddisfatta.
Finora non ci sono reazioni del governo alle richieste dell’opposizione e di alcune organizzazioni non governative che chiedono di ritirare il mandato parlamentare a Šešelj, perché in quanto criminale di guerra condannato secondo la Legge sull’elezione dei deputati non può più essere deputato al parlamento. Con la condanna per crimini di guerra, non può più ricoprire la carica di deputato né far parte del Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza.
Nella sua prima dichiarazione in parlamento dopo la sentenza di condanna, Šešelj come è sua consuetudine ha usato parole minacciose: "Sono venuto a vedere se qualcuno mi dirà che sono un criminale di guerra, così che gli spacco subito la faccia".
In Serbia, a quanto pare, a Šešelj tutto è ancora permesso. Può vantarsi dei crimini commessi, occupare un seggio in parlamento, partecipare ai reality show, minacciare croati, albanesi e oppositori politici in Serbia e nel resto del mondo.
Tuttavia, essendo politicamente debole, Šešelj non rappresenta alcuna minaccia per il presidente Vučić. Ma continua a ricordargli gli anni Novanta, quando insieme disegnavano i confini della “Grande Serbia”, un ricordo che Vučić vorrebbe cancellare dalla memoria collettiva.
Seguendo le sue indicazioni, gran parte dei cittadini serbi è disposta, coscientemente o no, a dimenticare i crimini avvenuti durante gli Novanta in Serbia e in altre repubbliche ex-jugoslave, molti dei quali vedono per protagonista proprio Vojislav Šešelj.