Un romanzo del 1940 ma tremendamente attuale: è "Doberdò", autobiografia di Prežihov Voranc, monumento letterario ai caduti sul fronte, ma anche monito alle generazioni di sopravvissuti all’assurdità del grande mattatoio della Prima guerra mondiale
Doberdò del Lago (Doberdob in sloveno) è un comune del Carso italiano, il più esteso dell’altopiano di Doberdò, situato 5 chilometri a nord di Monfalcone e abitato principalmente da sloveni. Ai piedi dell’altopiano di Doberdò, in una depressione carsica, si trova l’omonimo lago. Da qui, chi viaggia in macchina in pochi minuti raggiungerà Redipuglia (Sredipolje in sloveno) che ospita un monumento ai caduti italiani della Prima guerra mondiale.
Durante la Grande guerra, l’altopiano di Doberdò faceva parte del fronte dell’Isonzo dove, stando ad alcune stime, persero la vita tra i 200 e i 300mila militari da entrambe le parti. Tra i soldati dell’esercito austro-ungarico che combatterono sull’Isonzo c’era anche Lovro Kuhar (meglio noto con lo pseudonimo Prežihov Voranc), nato nel villaggio di Podgora pri Kotljah, in Carinzia.
Insieme ai milioni di giovani provenienti da famiglie povere, Kuhar venne mandato nella prima grande carneficina europea. Il suo romanzo autobiografico Doberdob (1940) è un monumento letterario ai caduti sul fronte, ma anche un monito alle generazioni di sopravvissuti all’assurdità del grande mattatoio.
Un monito – di una chiarezza paragonabile forse solo a quella fotografica – rivolto anche all’umanità di oggi. Un memento sulla guerra di trincea. Ma chi si ricorda ancora della letteratura che tra i due conflitti mondiali parlava senza mezzi termini dell’insensatezza della guerra? Preferirei sbagliarmi, però a distanza di più di due anni dall’inizio della guerra russo-ucraina, in una marea di notizie e commenti non ho ancora notato alcun tentativo di tracciare parallelismi con le battaglie di trincea della Grande guerra.
Non vorrei però mi si accusasse di voler apparire intelligente (come in quell’aneddoto in cui un bosniaco dice a suo figlio: “Sii saggio, ma non troppo”), né tanto meno vorrei ripetere le parole di Krleža secondo il quale (ancora) oggi nessuno legge niente.
Mi limito a sottolineare modestamente: non vi è una singola vicenda attuale che – grazie alla lettura delle opere antimilitariste come quelle di Remarque, Dos Pasos, Duhamel, Hašek e Krleža – possa sfuggire a quella “comprensione” del conflitto secondo cui le guerre ci sono sempre state e ci saranno sempre.
Ora chiudo questa inutile parentesi e torno a Doberdob.
Nonostante il sottotitolo Vojni roman slovenskega naroda [Romanzo militare del popolo sloveno], il libro di Prežihov Voranc è un documento letterario impregnato di un significato universale la cui drammaticità va ben oltre la topografia di un fronte e delle caserme di retrovia. Voranc sopravvisse ai combattimenti sul fronte dell’altopiano di Doberdò grazie al fatto di essersi arreso all’esercito italiano.
Prima un convinto socialista, quindi un oppositore alla Grande guerra, poi un comunista (fu tra i fondatori del partito comunista jugoslavo e di quello sloveno), avvertì la profonda ingiustizia di una guerra in cui gli ultimi non avevano alcun interesse ad imbracciare le armi.
Gli ultimi?
Quando il romanzo di Voranc (finalmente!) uscì in edizione italiana [1] (Doberdò, Goriška Mohorjeva Družba, 1998; traduzione e note a cura di Ezio Martin, pp. 464), l’editore scelse il sottotitolo Gli ultimi nell’esercito austro-ungarico. Gli ultimi nell’esercito, ma in prima linea del fronte, e spesso i primi a morire. Ormai non ci sono più, sulle loro tombe cresce l’erba, oppure si ergono monumenti dove si canta “A voi sia la gloria”, poi si osserva un momento di silenzio. La Storia? Continua ad avanzare, senza voltarsi indietro.
Un’altra digressione, perdonatemi!
Ritorniamo al nostro romanzo-documento. A differenza di Hemingway, il quale, come ben noto, scrisse Addio alle armi dopo aver inalato solo un po’ di polvere da sparo, Voranc non dovette ricorrere ad alcuna finzione. Di orrori – quelli reali – ne aveva visti in abbondanza. Se fossero finti, non sarebbe mai riuscito a ricostruire il manoscritto perso per ben due volte negli anni ’30 a causa della vita in clandestinità.
Ecco perché la genesi di Doberdob è una delle vicende più insolite della storia della letteratura europea, come dimostra anche un documentario molto interessante di Martin Turk, intitolato Doberdob – roman upornika [Doberdò – il romanzo di un ribelle, 2015, 74’), che traccia un ritratto di Voranc da una prospettiva letteraria, ma anche politica.
Il romanzo di Voranc è un ampio affresco della vita in caserma e al fronte. Uno dei personaggi, Amun Mohor, è un alter ego dello scrittore. Le prime due parti del libro – Crna vojska [Armata nera] e Doberdob – forniscono un’immagine dell’inizio della guerra, i preparativi, l’arrivo al fronte e le operazioni belliche. La terza e la quarta parte – Lebring e Judenburg – sempre con un chiaro linguaggio della prosa documentale, parlano del malcontento e della rivolta dei soldati che si conclude con una sentenza del tribunale militare e con la fucilazione dei ribelli.
Quasi cinquecento pagine di questo romanzo, tragicamente suggestivo, sull’impotenza degli individui, ma anche delle masse di fronte alla guerra, possono lasciare il lettore senza fiato e spingerlo a chiedersi con quale aggettivo descrivere l’attualità di questa opera. Un’attualità assurda? Ripetitiva? Ammonitoria? Vana?
Il mio Voranc? Fu anche uno scrittore dell’infanzia delle generazioni del secondo dopoguerra in Jugoslavia. Alcuni dei suoi racconti brevi furono inclusi nei nostri libri di testo. Alle superiori abbiamo studiato il suo racconto Samorastinki. Mi avvicinai per la prima volta a Voranc, scrittore per adulti, durante i miei studi di letteratura a Sarajevo. Ebbi la fortuna di avere Juraj Martinović come professore di letteratura slovena. A quel tempo lessi altri due romanzi di Voranc, Požganica (1939) e Jamnica (1945).
Non vorrei dilungarmi sullo status di cui oggi Voranc gode in Slovenia, dove la storia (anche della letteratura) è spesso scritta dai revisionisti. Se fosse diversamente, su Wikipedia a molti scrittori contemporanei di dubbia qualità non verrebbero dedicati testi di un metro, e a Voranc di appena 25 centimetri (chi non mi crede, metro alla mano!). Ma non importa, il tempo è un gentiluomo col sorriso che non risparmia le penne mediocri.
Non posso che consigliare Doberdob di Prežihov Voranc, un’opera da leggere e su cui interrogarsi. Non lasciatevi confondere dall’anno di pubblicazione, 1940.
Concludo questo omaggio a Doberdob con alcuni estratti di questa grande opera letteraria. Prima però cito un frammento dai Taccuini di Camus (aprile 1939 – febbraio 1942): “Beh, a ben guardare, quelli che andarono in guerra nel 1914 avevano molte più ragioni per disperarsi perché capivano ben poco di quanto stava accadendo. Mi direte che venire a conoscenza del fatto che la situazione nel 1928 era tanto disperata quanto nel 1939 non porta da nessuna parte. È solo apparenza. Perché nel 1928 non eravate completamente disperati e ora tutto vi sembra vano”.
Frammenti di Doberdò (traduzione: Ezio Martino)
Di giorno in giorno appariva sempre più evidente ad Amun che avevano ragione i camerati Holzmann e Barfuss quando affermavano che il battaglione serviva da pattumiera per i rifiuti dell’esercito austro-ungarico. Era uno dei primi fra i cosiddetti battaglioni di disciplina, speciale trovata del Commando Supremo; una di quelle numerosissime unità che raccoglievano in sé gl’innumerevoli sventurati delle varie epurazioni, dei tribunali presidiali, dei penitenziari, dei manicomi, una di quelle unità anonime che più tardi si sciolsero come neve al sole sul fronte dell’Isonzo sotto il fuoco delle granate italiane, o che furono divorate in Albania dai bacilli della malaria. In nessuno degli Stati formatisi dopo la guerra, i quali pure conservano le bandiere dei reggimenti austro-ungarici di linea ed onorano in qualche modo la loro gloria, c’è chi si ricordi di queste unità anonime. Erano, ed ora non sono più; eppure hanno affossato centinaia di migliaia esseri umani.
(…)
“Sparare, sparare!”
La voce di Almer suonava mutata arrocchita, e non incitava nessuno, poiché già sparavano tutti. Intanto il nemico si era affatto dissimulato. Allora si accorsero che di là dal cratere, passando proprio sopra le loro teste, cadeva da tutte le parti una fitta gragnuola di piombo. Erano quindi condannati a rimanere in quello spazio ristretto, fuori del quale non c’era la benché minima via d’uscita.
Scendeva la notte, gli Italiani non si vedevano più; la faccenda diventava noiosa. Gli ex fidati continuavano sparare dal cratere, quando ad un tratto Barfuss ebbe un idea: “E se poi ci mancano le munizioni?” Come se non aspettasse altro che quelle parole, Janoda disse: “Non solo, ma attiriamo pure l’attenzione del nemico su di noi”.
Almer capì che avevano entrambi ragione e bloccò il fuoco. Rimasero rannicchiati in quell’imbuto porgendo l’orecchio alle pallottole che fischiavano rasoterra, finché Holzmann domandò: “Che ora è?”
Questa strana domanda suscitò in alcuni un sorriso beffardo. Segal, il quale aveva arguito che sopra la sua testa s’incrociava un fuoco di fucileria proveniente da tre lati, lo rimbeccò con ira: “Non vedi che anche i nostri ci sparano addosso?”
Era un fatto innegabile. A Rainer venne in mente una cosa: “Dove sono i nostri?”
(…)
Fu chiamato per primo il più giovane, il bosniaco Davtović. La commozione lo vinse prima che si mettesse in ginocchio. Con le mani legate pregò il tenente colonnello Metnitz: “Devo proprio morire così giovane? Perché mi ammazzate?”
Metnitz, che era umano, ebbe la forza di rispondergli: “Io non posso far nulla. La tua vita non è nelle mie mani”.
Quella voce umana fu come un balsamo per il condannato. Davtović chinò, quasi con indifferenza, la testa avvolta in un drappo nero, poi la scarica gli trafisse testa e cuore. Il suo giovane sangue schizzò lontano intorno spruzzando i guanti bianchi del carnefice Lukesics.
Il secondo ad andare a morte fu Štefanič.
“Tukaj (Eccomi qua)!”, rispose con voce chiara e potente, quando l’uditore giudiziario pronunciò il suo nome.
“Risponda hier!”, urlò l’uditore più sorpreso che arrabbiato.
Štefanič andò al suo punto finale con passo leggero e con volto sereno. La scarica che gli troncò la vita era appena discorde della prima, ma Štefanič fu scosso subito dallo spasimo della morte.
Poi toccò a Možina.
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[1] L’unica traduzione di questa opera a giungere abbastanza presto è stata quella bulgara (1956). Tutte le altre edizioni (tedesca, inglese,…) sono state pubblicate in questo secolo. La ricezione europea di altre opere di Voranc, soprattutto dei suoi racconti brevi per bambini (e adulti), è stata invece più immediata, come dimostra un’edizione italiana della sua raccolta di racconti Mughetti, uscita nel 1966.
È impossibile far stare il percorso esistenziale e letterario di Prežihov Voranc – nato nel 1893 da una famiglia povera in un villaggio della Carinzia – entro i limiti di un semplice testo informativo. Parlare di Voranc significa anche rievocare la storia delle lotte per i diritti dei contadini e degli operai nel Regno di Jugoslavia, e quindi la storia del Partito comunista jugoslavo e sloveno in cui Voranc ebbe un ruolo importante, e spesso tragico, avendo combattuto per i diritti umani e sociali che l’ideologia comunista tendeva ad interpretare in una chiave dogmatica. Era vicino ai cosiddetti vertici del Partito, ossia a Tito e, naturalmente, a Kardelj, come anche a “quelli” di Mosca, essendo stato un attivista del Komintern. Eppure, aveva sempre cercato di rimanere fedele a se stesso e di non dimenticare il proprio passato, quando da giovane operaio aveva capito dove e come il capitalismo sfruttava l’individuo e la classe operaia. Si era anche reso conto dei punti deboli dell’ideologia che sosteneva, soprattutto del divario che lo separava da quelli che, pur promuovendo la giustizia sociale, si allontanavano sempre più dal popolo. Tra le suo opere più importanti, oltre ai romanzi già citati (Požganica, Doberdob i Jamnica), spiccano numerosi racconti per bambini, ma anche per adulti che non hanno mai dimenticato di essere stati bambini. Morì nel 1950. Oltre alla scuola elementare di Doberdò del Lago, anche alcuni istituti scolastici in Slovenia portano il suo nome.