Skyline di Istanbul

Skyline di Istanbul - Adeel Anwer/flickr

Un "nuovo" presidente della Repubblica, un nuovo premier e nuovi ministri, il tutto per una "nuova Turchia". Dopo la vittoria alle presidenziali, Erdoğan mette in campo la fedele squadra di governo guidato dall'ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu. Obiettivo: creare un sistema presidenzale nel paese

15/09/2014 -  Fazıla Mat Istanbul

Ad Ankara da diverse settimane la parola d’ordine è “nuovo”. Un nuovo presidente della Repubblica - nella figura dell’ex premier Recep Tayyip Erdoğan - che dallo scorso 28 agosto è il primo capo di stato ad essere stato eletto direttamente dai cittadini, un nuovo premier, l’ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, subentrato in sua vece; un nuovo gabinetto dei ministri con quattro nomine inedite. Un nuovo programma governativo e, soprattutto, una “nuova Turchia” come finalità ultima da raggiungere entro il 2023, centenario della fondazione della repubblica.

Tandem di governo

Il tutto rientra all’interno del progetto di Erdoğan di creare un sistema presidenziale nel paese. L’intento, chiaramente annunciato in campagna elettorale, ha già iniziato a prendere forma. Il presidente Erdoğan, che ha assunto il nuovo incarico senza mai presentare le dimissioni da premier e da leader dell’AKP, ha nominato suo successore il fedelissimo ministro degli Esteri Davutoğlu che ha messo subito in chiaro l’idillio che caratterizzerà i rapporti tra i due. Il primo ministro ha affermato che “il capo dello stato eletto dai cittadini e il premier cammineranno mano nella mano e spalla contro spalla. Chi spera di vedere nascere un contrasto [tra di noi] verrà disilluso. Non possono esistere contrasti tra compagni che lottano per una causa comune”.

Dunque Erdoğan, sentendosi legittimato dalla scelta degli elettori che lo hanno premiato col 51,8% delle preferenze nel voto presidenziale del 10 agosto, non sarà solo un presidente della Repubblica con poteri essenzialmente rappresentativi, ma utilizzerà all’estremo alcuni poteri esecutivi che gli derivano dalla costituzione, mentre il premier Davutoğlu opererà in armonia con le sue direttive.

L’obiettivo principale rimane tuttavia la modifica della costituzione per stabilire un sistema presidenziale specificamente “turco”, dove la separazione dei poteri risulterebbe ridotta al minimo, con un potere giuridico e una società civile non più in grado di esercitare una funzione di controllo e pressione sull’esecutivo.

Per coronare il sogno presidenziale, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) guidato dal nuovo premier dovrà ottenere almeno i 3/5 dei seggi parlamentari alle elezioni politiche del 2015. Impresa che, se considerato il 52% scarso ottenuto dal più popolare Erdoğan alle ultime elezioni, non appare proprio di facile riuscita, sempre che non vengano strette alleanze con altri partiti.

Tra cambiamento e stabilità

Le limitazioni istituzionali derivanti dall’attuale sistema parlamentare e dalla costituzione che lo sancisce richiedono comunque che il piano presidenziale venga attuato con una certa delicatezza. Come scrive l’analista politico Murat Yetkin su Radikal, il rimpasto del governo Davutoğlu, con soli tre ministri in uscita e quattro di nuova nomina, indica “l’intenzione di non volere correre dei rischi inutili nella corsa elettorale del 2015”.

Una volontà che è stata manifestata anche con la scelta di mantenere nelle rispettive posizioni il vice ministro Ali Babacan (considerato a livello internazionale un garante della politica economica turca) e il ministro dell’Economia Yıldırım Şimşek. Entrambe personalità che nei mesi passati hanno avuto delle aperte divergenze con l’ex premier Erdoğan, in particolare sulla gestione dei tassi d’interesse bancari, portando molti a ipotizzare la loro estromissione dai rispettivi incarichi. Secondo alcuni analisti, la non esclusione dei due politici indica la volontà del governo Davutoğlu di scongiurare per il momento una situazione di instabilità economica per il paese, soprattutto nell’ottica degli investitori internazionali.

Tuttavia, per quanto Erdoğan e Davutoğlu parlino di “assenza di conflitti” all’interno del partito, gli osservatori notano delle crepe tra le “nuove generazioni” dell’AKP – che sarebbero i sostenitori più accesi di Erdoğan – e le “vecchie guardie” del partito come i vice ministri Bülent Arınç e Beşir Atalay, obbligati dallo statuto del partito a ritirarsi dopo tre mandati.

Il risentimento di Gül

Un caso a parte è quello dell’ex presidente della repubblica Abdullah Gül, che dopo l’elezione di Erdoğan ha dichiarato di volere rientrare tra le fila del partito di cui è anche fondatore. Il congresso straordinario per la scelta del nuovo premier – il cui nome era già stato annunciato da Erdoğan – è stato fissato in maniera significativa prima che Gül terminasse il suo mandato, scatenando evidente risentimento nell’ex capo di stato. Gül, sostenitore del sistema parlamentare, ha dato voce al suo malumore durante il ricevimento di commiato, prima di lasciare l’incarico: “Nell’ultimo periodo ho assistito a numerosi sgarbi da parte del mio gruppo. Li ho seguiti tutti e questa occasione serva a ricordarli”.

Ma a rincarare la dose è stata l’ex first lady Hayrünnisa Gül: “Mio marito non parla perché non glielo consente la sua educazione. Non avevamo ricevuto così tanti affronti dai tempi in cui si dibatteva del mio velo. È incredibile quello che viene detto e scritto da parte dei musulmani osservanti su di noi. Io so tutto, ora taccio ma non sarà per lungo. Inizierò io la vera intifada”.

Mentre per il momento sul fronte interno dell’AKP tutto tace, l’opposizione più forte del paese, il Partito repubblicano del popolo (CHP) che ha appena riconfermato a segretario Kemal Kılıçdaroğlu, sbaragliando le componenti ultra-nazionaliste della formazione, cerca ancora di capire se è opportuno allinearsi più nettamente a sinistra o includere nel partito un numero maggiore di personalità musulmane osservanti. Un dubbio che viene accolto con sarcasmo da alcuni analisti, che considerano in una crisi dell’AKP l’unica eventuale possibilità di vincita del CHP.

Nel programma del governo Davutoğlu, a parte l’obiettivo di una nuova costituzione, trova spazio anche l’“intolleranza a qualsiasi forma di tutela”. Il rimando va alla caccia alle streghe contro il movimento Hizmet dell’imam Fethullah Gülen, artefice, secondo l’AKP, di un tentato golpe tramite operazioni anti-corruzione avviate nel dicembre dell’anno scorso contro personalità e ministri legati all’esecutivo Erdoğan. Ankara è arrivata a chiedere l'estradizione di Gülen a Washington, sebbene in mancanza di una sentenza di colpevolezza a carico dell’imam, la richiesta abbia scarse possibilità di essere accolta.

La politica estera e la minaccia ISIL

Anche l’ingresso della Turchia nell’UE resta “una priorità” del governo Davutoğlu, con Volkan Bozkır che diventa il nuovo ministro per gli Affari UE sostituendo Mevlut Çavuşoğlu, a sua volta nuovo ministro degli Esteri. La designazione a primo ministro di Davutoğlu, ideatore della dottrina “zero problemi con i vicini”, che ha avuto successo solo fino all’inizio delle rivoluzioni arabe, segnala una continuità nell’orientamento della politica estera di Ankara.

Questa però resta uno dei punti più deboli dell’esecutivo turco nella percezione degli elettori, soprattutto per il modo in cui la Turchia ha gestito i suoi rapporti nel Medio Oriente negli ultimi anni, a partire dalla crisi siriana. Il nuovo eseczutivo sembra tuttavia ignorare tale percezione. “La politica estera turca incentrata sui valori è oramai una marca internazionale” afferma Davutoğlu, il cui entusiasmo lo porta ad affermare addirittura che “la nuova Turchia è un esempio di successo internazionale” e che “continuerà ad essere parte della soluzione in ogni problema regionale e globale”.

Se a livello più strettamente locale preme portare a compimento il processo di pace avviato con i curdi e il leader del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) Abdullah Öcalan (nel carcere di İmralı) – una necessità espressa esplicitamente dal programma del governo – il problema più serio che spetta affrontare all’esecutivo Davutoğlu è la pressione esercitata dall’ISIL (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) alle sue frontiere orientali. Ankara si è detta disposta a sostenere la lotta degli USA all’ISIL ma con un contributo “passivo” consistente soprattutto in un supporto logistico, umanitario e di intelligence, incrementando la sicurezza ai confini, in modo da bloccare l’infiltrazione di combattenti stranieri diretti in Siria e in Iraq per unirsi ai jihadisti.

La Turchia giustifica il suo atteggiamento “cauto” nei confronti dell’ISIS per il fatto che quest’ultimo ha ancora in mano 49 ostaggi rapiti dal consolato turco di Mosul lo scorso giugno. Per quanto il governo turco lo neghi, diverse testimonianze indicano come negli ultimi anni la Turchia abbia verosimilmente chiuso un occhio nei confronti dei militanti dell’ISIL per cacciare il regime di Assad. Ora però, come scrivono Sinan Ülgen e F. Doruk Ergün in una recente analisi per l’Edam (Centre for Economics and Foreign Politics Studies), Ankara è seriamente preoccupata per le implicazioni geopolitiche e di sicurezza create dall’ISIL. Il network e le cellule create in Turchia dai jihadisti negli ultimi tre anni grazie all’atteggiamento tollerante delle autorità turche nei loro confronti ha creato un terreno minato per la sicurezza del paese. Un rischio accentuato dal numero significativo di cittadini turchi che sono partiti per ingrossare le file dell’organizzazione radicale.

I due analisti aggiungono però che Ankara si trova in difficoltà anche per il fatto che i curdi della regione sono tra le forze più efficienti a combattere i militanti dell’ISIL. L’aiuto di armi prospettato dagli USA e dall’UE alla guerriglia curda ha allarmato Ankara che ha chiesto che i rifornimenti non finiscano in mano al PKK. Proprio il ruolo attivo che stanno avendo i curdi in questa lotta e la considerazione favorevole che perciò godono tra i paesi occidentali darebbe loro man forte nelle trattative di pace condotte con il governo turco. E il progetto della “Nuova Turchia” dovrà inevitabilmente fare i conti anche con tutti questi fardelli.