Sono in pieno svolgimento nuovi colloqui tra governo di Ankara e PKK alla ricerca di un compromesso in grado di fermare lo scontro trentennale tra governo turco e indipendentisti curdi. Nuove condizioni geopolitiche, impegno del premier Tayyip Erdoğan e coinvolgimento del leader storico del PKK Abdullah Öcalan danno vita a rinnovate speranze, anche se le difficoltà restano evidenti
Il premier turco Tayyip Erdoğan ha dichiarato di essere disposto “a bere del veleno” pur di arrivare ad una soluzione, mentre per Abdullah Öcalan, leader del Partito dei lavoratori curdi (PKK), rinchiuso nell’isola-carcere di İmralı dal 1999, se si fallirà anche questa volta sarà un “disastro” per la Turchia.
Dallo scorso ottobre la questione curda è al centro di un nuovo dialogo tra lo stato turco e Öcalan. Obiettivo: trovare un accordo che metta fine al conflitto tra i militanti del PKK (considerato un’organizzazione terroristica da Turchia, UE e USA) e l’esercito, che in trent’anni ha causato oltre 40mila morti. Il 2012 è stato un anno di scontri estremamente violenti, che sono costati la vita a 1500 militanti PKK e 601 soldati turchi.
Altri tentativi di dialogo sono stati avviati in passato, come l’“apertura curda” del 2009 o le “trattative di Oslo” del 2011. Entrambe fallite. Di diverso ora c’è il crescente peso politico dei curdi ai confini sudorientali della Turchia: alcuni analisti ritengono che, dopo l’esempio del Nord Iraq, il “sentimento di accerchiamento” dato dalla pressione dei curdi della Siria al confine abbia incentivato il processo di dialogo. In questo senso, l’eventuale formazione di una regione autonoma curda in Siria, al confine con la Turchia, darebbe al PKK una zona sicura di appoggio e costituirebbe una “minaccia per la sicurezza” di Ankara, che il governo turco vorrebbe evitare. I colloqui avviati con Öcalan sarebbero, sotto quest’ottica, una conseguenza per prevenire un simile scenario.
Un altro elemento di trattativa importante potrebbe derivare dall'introduzione di un sistema di “presidenzialismo alla turca”, cui aspira Erdoğan. Nel caso si raggiungesse un accordo tra le parti, il premier intenderebbe farlo approvare in parlamento grazie ai voti del Partito della pace e democrazia (BDP). Per approvare l’emendamento alla costituzione che introduca il sistema presidenziale voluta solo dall’AKP, quest’ultima avrebbe bisogno di almeno 330 seggi in parlamento. Ora ne ha 325 e il numero potrebbe anche calare se alcuni dei suoi deputati verranno eletti alle elezioni amministrative del 2014. Il sostegno del BDP potrebbe quindi assumere un’importanza vitale.
Un’altra novità è che a differenza delle volte precedenti Öcalan è stato coinvolto apertamente come interlocutore (una situazione che indica anche un certa “maturazione” dell’opinione pubblica turca), anche se le trattative sono comunque sempre condotte dagli agenti dei servizi segreti (MIT). E anche il PKK, per tramite del suo leader, è stato chiamato a esprimere la propria posizione. Il tutto attraverso la mediazione della voce parlamentare dei curdi, espressa dal BDP.
Colloqui ad İmralı
L’avvio dei colloqui con gli agenti del MIT era già stato annunciato da Öcalan lo scorso 17 novembre 2012 (contemporaneamente all’appello del leader del PKK, che aveva fatto cessare lo sciopero della fame di centinaia di prigionieri curdi). Il processo ha però assunto ufficialità quando, il 3 gennaio 2013, il governo ha permesso ad una delegazione formata da due deputati del BDP di visitare il leader curdo, cui da 18 mesi veniva concesso di incontrare solo i familiari.
Tra i punti salienti del colloquio, l’esclusione dalle richieste curde di istanze separatiste particolarmente temute dall’opinione pubblica turca, o di “democrazia autonomista” teorizzata in passato da Öcalan, che avrebbe affermato di considerare “la risoluzione della questione curda all'interno del processo di democratizzazione della Turchia”.
La visita della seconda delegazione è avvenuta il 23 febbraio, dopo aver subito dei ritardi a causa dall’omicidio a Parigi (considerato un sabotaggio al processo di dialogo) di tre donne curde afferenti al PKK e una discussione tra il governo e il BDP sui nomi che si sarebbero dovuti recare nell’isola.
L’incontro di Öcalan con la delegazione, composta dai tre parlamentari curdi Sırrı Süreyya Önder, Pelvin Budan e Altan Tan è stata di centrale importanza per portare maggiore chiarezza sul piano di risoluzione al conflitto prospettato dal leader del PKK. Öcalan ha inoltrato alle tre parti curde coinvolte nel processo – il BDP, i militanti del PKK stanziati sul monte Qandil, nel Nord Iraq, e l’ala europea del KCK (Unione delle comunità del Kurdistan, sovrastruttura del PKK) – tre lettere identiche in cui espone la propria road-map per il processo di pace. Un piano sui cui punti, secondo quanto riferisce il quotidiano Milliyet, Öcalan avrebbe in precedenza approfonditamente discusso con i rappresentanti del MIT, trovando, secondo alcuni commentatori, anche un accordo.
I punti della road-map
Milliyet, che ha ottenuto informazioni privilegiate sui verbali dell’incontro con Öcalan, ha riferito che la road-map si articola su tre livelli a partire da una “filosofia della pace”, per passare ad un “piano d’azione” e ad “eventuali problemi e conclusioni”. Öcalan pone al centro di tutto il processo una nuova costituzione (sul cui testo sta lavorando un’apposita commissione parlamentare da oltre un anno, finora senza risultati concreti) che fornisca una definizione di “cittadinanza libera da ogni tipo di riferimento etnico”, fondata su una “completa democrazia” e sui “principi della giurisprudenza internazionale”.
Sotto la voce “piano d’azione” della road-map, verrebbe ipotizzato il ritiro del PKK al di là della frontiera turca, un processo che potrebbe/dovrebbe iniziare con un appello di Öcalan il prossimo 21 marzo, giorno del Newruz, e concludersi per la fine di luglio. Solo a questo punto si inizierebbero a considerare le modalità e i tempi di deposizione delle armi. Il “ritiro” però, afferma Öcalan, dovrebbe essere “reciproco” e “approvato dal parlamento”.
Intanto i bombardamenti dell’esercito turco su Qandil continuano, non mancando di suscitare critiche da parte curda. Erdoğan ha affermato che il processo di pace “inizierà de facto quando i membri del PKK si ritireranno in un altro paese”.
Reazioni e speranze
Öcalan ha concesso ai destinatari delle lettere due settimane per valutare quanto proposto e rispondere avanzando eventuali dubbi. Il quotidiano Taraf domenica 3 marzo ha riferito che i dirigenti del PKK hanno espresso il loro sostegno al processo di pace, avviando da subito una tregua fino al 21 marzo. Il PKK, in risposta ad un appello rivolto loro da Öcalan durante l’ultima visita della delegazione BDP, si starebbe anche preparando a rilasciare 16 ostaggi, civili e militari trattenuti in diversi campi fuori dai confini della Turchia. In cambio, richiederebbero “un analogo passo dal governo” relativo al rilascio dei detenuti curdi nell’ambito dell’inchiesta KCK. Una richiesta che si attende possa essere risolta (almeno parzialmente) dal quarto pacchetto di riforma alla giustizia, appena presentato in parlamento, che dovrebbe depenalizzare il reato di “propaganda terroristica” per cui migliaia di curdi si trovano sotto arresto.
Prevedibili le reazioni del Partito dell’azione nazionalista (MHP) il cui leader Devlet Bahçeli ha accusato il premier Erdoğan di “tradire la patria” e “trascinare nel baratro la nostra identità nazionale” con “l’aiuto del carnefice di İmralı“. Incerto il CHP (Partito repubblicano del popolo) che spesso subisce l’influsso della sua anima nazionalista. Il leader Kemal Kılıçdaroğlu ha affermato che il partito non considera negativamente il processo di dialogo, ma non gradisce di essere lasciato all’oscuro delle trattative quando “il luogo di risoluzione del problema dovrebbe essere il parlamento”.
Reazioni nazionaliste restano forti anche tra la popolazione. Ne è stata una dimostrazione l’attacco a Sinop e a Samsun di una folla contro una delegazione del BDP recatasi nel Mar Nero per promuovere il processo di pace. Nessuno si è fatto male ma i deputati non hanno potuto proseguire il loro tour.
I sondaggi indicano che il 69,5% della popolazione ritiene che il governo riuscirà a portare a termine il processo di pace. Tra i diversi osservatori resta alta l’aspettativa, ma con grande cautela, visto che ci si trova solo all’inizio di un lungo processo che ogni imprevisto può rischiare di destabilizzare.
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