La Turchia sta precipitando in una spirale di violenza, che mina ogni possibilità di dialogo e rischia di sfociare in aperto conflitto etnico con la popolazione curda
Diciotto attentati nel corso dell'ultimo anno e mezzo, centinaia di morti: ad ogni esplosione, segue la promessa delle autorità governative di rispondere con durezza e porre fine alla minaccia. Almeno fino all'attentato successivo, quando appare evidente che la spirale di violenza, in cui la Turchia è da tempo invischiata, non è destinata ad avere fine.
Le dichiarazioni belligeranti del governo e dei giornali ad esso vicini infiammano i sentimenti nazionalisti della popolazione, invitata ad unirsi allo spirito di mobilitazione per difendere la nazione. Lo scontro, formalmente tra le forze militari ed i guerriglieri curdi, tracima sempre più spesso in un confronto diretto tra civili.
Attentati
L'attacco allo stadio di Beşiktaş ad Istanbul il 10 dicembre ha causato 46 morti e 166 feriti; bersaglio dell'attacco le forze di polizia di stanza fuori dalla struttura per la partita di calcio. Nell'attacco, però, inevitabilmente sono rimasti uccisi anche diversi civili. Una settimana dopo un altro attentato, questa volta a Kayseri: 14 soldati uccisi e 56 feriti mentre, fuori servizio, si recavano in autobus verso il centro città.
A Kayseri sono di stanza contingenti dell'esercito largamente impiegati nelle operazioni militari nel Sud-Est, contraltare delle bombe nelle strade e volte a reprimere i movimenti autonomisti armati curdi. Gli scontri tra militari e PKK hanno colpito duramente la popolazione locale, raso al suolo numerosi distretti cittadini e devastato l'intera regione.
Gli ultimi attentati sono stati rivendicati dal TAK, un gruppo armato curdo sulla cui genesi c'è ancora un velo di fitto mistero. Le ipotesi attorno al gruppo sono varie e vanno da una scissione interna al PKK, con il TAK formato da oltranzisti scontenti della linea troppo “morbida” adottata durante il processo di pace, all'idea che il gruppo serva da paravento al PKK, il quale lo sfrutterebbe per compiere attentati mantenendo “pulita” la propria immagine.
Per alcuni commentatori, dietro agli attentati ci sarebbe la volontà di TAK/PKK di innescare il conflitto inter-etnico per provocare una sollevazione popolare curda. Al netto delle speculazioni, il linguaggio usato dal TAK nelle sue rivendicazioni non è meno violento delle più infiammatorie pagine dei giornali islamisti turchi.
A caccia del nemico interno
Per buona parte della popolazione turca non c'è alcuna differenza non solo tra il PKK e il TAK, ma anche tra il PKK e il progressista Partito democratico dei popoli (HDP), entro cui è confluita la rappresentanza politica curda, nonostante il partito abbia costantemente condannato con veemenza sia gli attacchi, sia la risposta violenta del governo, non da ultimo attraverso le parole del co-leader di partito Selahattin Demirtaş, in carcere dal 4 novembre scorso.
Le proteste di piazza dopo l'attacco di Kayseri si sono presto trasformate in atti di aggressione verso le sedi dell'HDP. Gruppi animati dal desiderio di vendetta hanno raggiunto le sedi cantando slogan nazionalistici, sventolando bandiere turche o legate a simboli del nazionalismo etnico turco. Gli edifici sono stati colpiti da lanci di pietre, colpi di arma da fuoco ed esplosioni, sono stati appiccati incendi e rimosse le insegne del partito, sostituite con la bandiera turca.
L'HDP ha annunciato dopo alcune ore di aver evacuato tutte le sue sedi per timore di altri incidenti e per tutelare l'incolumità dei propri attivisti. Murat, attivista curdo che ha trascorso sei anni in carcere tra il 1982 e il 1988 in seguito alla repressione innescata dal colpo di stato del 1980, considera la situazione di oggi molto più grave rispetto alla fine del secolo precedente: “Quando la folla viene implicitamente o esplicitamente autorizzata ad esigere vendetta è tutto più pericoloso: perché non è una situazione realisticamente controllabile, perché il passo verso il conflitto inter-etnico si fa più breve, e perché nella massa si perde il concetto di responsabilità individuale ed ogni crimine perpetrato diventa impunibile”.
Ma non è solo la rappresentanza politica curda ad essere nel mirino. Anche giovani militanti del partito repubblicano CHP, oggi all'opposizione, sono stati aggrediti a Kayseri dalla folla inferocita. La polizia è intervenuta per disperdere l'assembramento sparando colpi in aria.
Dopo le elezioni del 7 giugno 2015 e il fallimento del processo di pace, l'HDP è finito nel mirino del governo, che lo accusa di essere la spalla politica del PKK. Ad oggi oltre 600 gli esponenti in arresto, tra cui 12 parlamentari inclusi i co-segretari Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ; molti anche i sindaci HDP arrestati e destituiti, le cui municipalità sono state commissariate dai governatori locali.
Il risultato è che è saltata la possibilità di rappresentanza politica, il rischio è che i curdi vengano spinti ancor più lontano dal percorso di una soluzione politica e pacifica alla questione, soluzione che oggi appare chimerica.
Chiamata alle armi
Se da un lato diversi esponenti politici hanno invitato la popolazione a non cedere alle pulsioni violente, è altrettanto vero che mesi di “chiamata alla mobilitazione” da parte del governo hanno enormemente contribuito al clima di estrema tensione e violenza che incendia il paese.
Soprattutto dal tentato golpe di luglio, il mantra della difesa popolare della nazione è risuonato quotidianamente, sia sulle pagine dei media vicini al governo, sia per bocca di diversi esponenti governativi. Il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan, dopo l'attentato di Beşiktaş ha così invitato la popolazione alla mobilitazione generale: “Faccio un appello a tutti i miei cittadini: nelle mie capacità di capo dello Stato, in riferimento all’articolo 104 della Costituzione, dichiaro una mobilitazione nazionale contro tutte le organizzazioni terroristiche includendo PKK, ISIS, FETO, DHKP-C e simili, a prescindere dai loro nomi, metodi o modalità di azione”.
In risposta a questa dichiarazione sono arrivate forti critiche dalle opposizioni, dato che tecnicamente la chiamata alla mobilitazione è ciò che precede immediatamente lo stato di guerra.
Al di là dell'aspetto tecnico, tuttavia, sono appelli come questo che vanno ad alimentare il senso di legittimità nella popolazione che, in un contesto incendiario come quello della Turchia di oggi, si sente chiamata ed autorizzata ad agire in difesa della nazione e lo fa sempre più attraverso la violenza di strada.
L'intenso clima d'odio verso il percepito nemico interno, si somma a quello di costernazione per gli eventi di Aleppo in Siria. La popolazione della Turchia, come il governo stesso, sostiene a grande maggioranza il variegato schieramento ribelle contro Assad e le notizie che giungono dal nord della Siria, con la caduta di Aleppo est nelle mani del regime, hanno scatenato manifestazioni di protesta sia di fronte agli edifici rappresentativi russi, sia in diverse località di confine. L'intero paese è attraversato da un sentimento di forte ostilità verso Damasco e Mosca.
L'ennesimo episodio di sangue, l'uccisione dell'ambasciatore russo Karlov ad Ankara, si inserisce, al di là delle congetture sui possibili mandanti, precisamente in questo contesto di violenza diffusa.
Nella spirale dell'odio
Altıntaş ha rivendicato l'omicidio in nome di Aleppo usando parole che, al netto delle invocazioni religiose, sono identiche a quelle che per mesi si sono potute leggere su giornali e ascoltare nelle televisioni.
Poche ore dopo l'omicidio dell'ambasciatore, un altro uomo si è presentato armato di fronte all'ambasciata statunitense, sparando diversi colpi finché è stato arrestato. Gli Stati Uniti, al pari dell'Europa, sono da tempo accusati da giornali e politici di rilievo di avere un ruolo di sostegno attivo al terrorismo che colpisce il paese, nonché di aver architettato, attraverso l'alleato gülenista, l'omicidio di Karlov allo scopo di minare le relazioni russo-turche.
Il livello di conflitto nel paese, tra gruppi politici, etnici e religiosi, cresce quindi giorno dopo giorno, alimentato non solo dai continui episodi di violenza, ma anche dalla retorica che costantemente li accompagna.
Una pacificazione della società turca dovrà necessariamente passare anche attraverso un cambiamento del linguaggio e della comunicazione pubblica, nella politica come nel giornalismo, in cui l'incitamento all'odio sia sostituito con la volontà di dialogo e la strategia della tensione con quella della distensione.