Casa danneggiata a Debaltseve, Donbas -  © Sebastian Castelier/Shutterstock

Casa danneggiata a Debaltseve, Donbas -  © Sebastian Castelier/Shutterstock

Il nostro lungo viaggio alla scoperta del Donbas arriva alla sua conclusione con una domanda scomoda e forse paradossale: e se la regione, sempre più strumentalizzata da narrazioni mitologiche e propagandistiche stesse in realtà scomparendo? Ultima puntata del nostro dossier

Durante questo viaggio nel passato del Donbas, siamo partiti dalla Storia. Quella di una regione mineraria costituitasi come terra di confine e plasmata attorno a un mito proletario, a partire dal suo celebre settore industriale, che effettivamente contribuì a “costruire dal nulla” Donec’k, Luhans’k e Mariupol’ per come le conosciamo oggi.

Sino a fine Ottocento, il Donbas era infatti un territorio in larga parte disabitato, compreso nei “campi selvaggi” - definizione che gli europei dell’epoca utilizzavano per definire l’attuale Ucraina sud-orientale, e in cui vivevano i celebri cosacchi dello Zaporož'e.

Radici mitiche

Della mitologia della regione abbiamo ampiamente documentato nel quinto capitolo: un altro mito emerso, negli ultimi dieci anni ma radicato anch’esso al passato, era pure quello di un territorio ad un certo punto percepitosi come libero - non solo rispetto a Kyiv, ma pure rispetto a Mosca, nel corso del suo variegato vissuto - ma di cui fino al 2014 non vi erano quasi state tracce di indipendentismo: curiosamente, e in maniera controintuitiva per alcuni, i cosacchi sono una figura storica esaltata in Donbas, proprio come a Kyiv e Leopoli.

Il Donbas dunque come una sorta di Far West cardinalmente invertito, in cui più che l’etnia, la lingua e la cultura contavano la dedizione al lavoro e la cultura del rispetto “virile”, quest’ultima sviluppatasi maggiormente nei Selvaggi anni Novanta in cui emersero le gang criminali che diedero vita a diversi clan oligarchici, fra cui quello di Donec’k comprendente l’uomo più ricco d’Ucraina Rinat Achmetov e l’ex presidente Viktor Janukovyč.

Pensando alla cultura del lavoro e alla miniere, non sorprende se è proprio qui che la propaganda sovietica scovò la figura di Aleksej Stachanov, da cui il celebre stakanovismo e pure il nome di una città in Donbas, nel 2015 rinominata Kadiivka in seguito alle leggi di decomunistizzazione ucraine approvate dall’ex presidente Petro Porošenko - sebbene l’Ucraina non controllasse più Stachanov/Kadiivka dall’anno precedente. Nella stessa Kadiivka - che i separatisti chiamavano ovviamente Stachanov secondo la tradizione sovietica - si cercò di instaurare persino una pseudo-repubblica all’interno dell’auto-proclamata repubblica di Luhans’k.

Tuttavia, il progetto di una Repubblica Popolare Cosacca fallì con l’attentato al suo ideologo Pavel Dremov, ucciso nel 2015 durante le numerose faide fra leader separatisti che abbiamo raccontato nell’ottavo capitolo di questo viaggio. La motivazione? Il possesso di kompromat (termine usato nel contesto post-sovietico per definire dossier di informazioni potenzialmente letali per la reputazione di uomini politici) nei confronti del leader della repubblica Igor Plotnyc’kyj, presente pure durante le trattative di Minsk, e uno dei finanziatori principali del progetto separatista, l’oligarca ucraino Oleksandr Jefremov, deputato del Partito delle Regioni fra il 2005 e il 2014.

Tornando al Donbas più ampio, emerge quindi una regione tollerante rifugio per vari tipi di fuggiaschi e criminali; durante il Novecento sia di ebrei perseguitati da Stalin che degli ultranazionalisti dell’Ukrains'ka povstans'ka armija (UPA), l’esercito insurrezionale ucraino nato in Ucraina occidentale negli anni ‘40 sulla base dei nazionalisti di ispirazione fascista guidati da Stepan Bandera. E pure di anarchici, contadini, intellettuali perseguitati dal regime comunista (sebbene l’appoggio alla dottrina sovietica sia poi rimasta fra le più forti nello spazio post-sovietico) o semplici banditi.

Poco importa se questa narrazione rispecchi la realtà storica o meno. Rimane questo il prisma identitario attraverso il quale è stato costruito il mito di un Donbas “diverso” in epoca contemporanea, cioè dopo il crollo dell’Unione Sovietica - in cui le peculiarità di una specifica regione o nazione venivano piuttosto glissate - e l’indipendenza ucraina del 1991, alla quale l’80% della popolazione delle oblast’ di Donec’k e Luhans’k espresse supporto.

Divisioni sociali

Nelle precedenti nove puntate di questa raccolta sull’origine dell’invasione russa del 24 febbraio 2022 (sebbene l’annessione della Crimea preceda lo scoppio dei disordini in Donbas di qualche settimana) abbiamo affrontato diversi punti critici, aprendo nuovi punti di domanda piuttosto che pretendere di risolvere questioni che non accennano nemmeno vagamente a ricucirsi nella realtà.

La polarizzazione politica durante Euromaidan, e il movimento di Antimaidan da cui il germe del separatismo sembrò nascere nell’aprile 2014, spalleggiato dalla storica influenza del Cremlino nella regione. La questione linguistica per i russofoni nella regione, un’interpretazione della storia divisiva, i clan oligarchici e i loro rappresentanti politici, che avevano determinato l’elezione di Viktor Janukovyč nel 2010, il presidente fuggito in seguito a quella che vieni oggi chiamata in Ucraina Rivoluzione della Dignità.

E poi l’Operazione Anti-Terroristica (ATO) di Kyiv nel 2014, la vita quotidiana nelle autoproclamate repubbliche di Donec’k e Luhans’k, il fenomeno del collaborazionismo allora e oggi, con la nuova invasione russa che ha definitivamente determinato l’annessione delle regioni a Mosca in luogo di una formale indipendenza. Il crescente nazionalismo nell’Ucraina libera e il rancore popolare, strumentalizzato dalla politica, verso chi è rimasto in Donbas oppure ha sostenuto i separatisti nel 2014, innescando una catena causale che ha portato a centinaia di migliaia di morti fra soldati e civili negli ultimi dieci anni - un numero moltiplicato dall’invasione su larga scala del Cremlino il 24 febbraio 2022.

Eppure, anche guardando al futuro - quanto mai incerto e pessimistico, come abbiamo raccontato nel penultimo capitolo - della regione, non si può di nuovo che usare la prospettiva dello storico, nell’analisi del possibile in Donbas.

“Non c'è dubbio che se la Russia continuerà l’occupazione del Donbas, distruggerà ogni residuo del suo passato ucraino. Se l'Ucraina riconquisterà il Donbass - e sono fermamente convinto che lo farà - dovrà procedere con cautela. [...] Kyiv non dovrebbe seguire l'esempio della Russia e cercare di cancellare il passato e la cultura russa del Donbas. La diversità può essere fonte di conflitto, ma è anche una grande fonte di creatività e prosperità. Dimenticare il passato, invece, è un modo sicuro per portare disastri in futuro”.

È ciò che sostiene lo storico americano di origini giapponesi Hiroaki Kuromiya, uno dei maggiori esperti del Donbas e autore di Freedom and Terror in the Donbas: A Ukrainian-Russian Borderland 1870s-1990s (Cambridge University Press, 2002), in una recente intervista tradotta in Italia da Valigia Blu rilasciata per Meduza a Konstantin Skorkin, ricercatore indipendente ed esperto di storia politica del Donbas di cui abbiamo raccolto ampiamente la voce durante questo viaggio in dieci puntate.

E proprio Skorkin ci ha raccontato come “sia molto naturale per la società ucraina avere un atteggiamento spesso negativo nei confronti dei residenti dei territori occupati, a causa delle perdite militari ucraine e delle conseguenze familiari". Tutti [gli abitanti del Donbas, oppure originari di esso, ndr] sono considerati collaborazionisti senza eccezioni. Ma penso che questa sia la strada sbagliata, perché le emozioni sono emozioni. Se vogliamo liberare non solo le terre ma pure le persone che questa terra la abitano, dobbiamo pensare a come attirarle dalla nostra parte e non trasformarle in nostri nemici”.

Problematizzare il collaborazionismo

Dopo due anni di guerra, sono oltre 8 mila i casi aperti in Ucraina per “collaborazionismo” (vale a dire per quelle azioni che ricadono sotto gli articoli 111-1 e 111-2 del Codice Penale, già introdotti nella legislazione del paese in seguito allo scoppio del conflitto nel Donbas e di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo di questa serie). Si tratta di procedimenti giudiziari che a livello generale avvengono nel rispetto delle procedure e dei diritti umani.

Tuttavia vengono talvolta criticati da un punto di vista tecnico per via dell’ambiguità e della vaghezza con cui vengono identificate le attività da considerarsi “collaborazione con il nemico” (si veda a questo proposito, un dossier elaborato dall’Ong Zmina); da un punto di vista politico, inoltre, rischiano di esacerbare le divisioni interne e di allontanare ulteriormente quelle persone che già non sentivano una forte appartenenza e lealtà verso Kyiv.

D’altro canto, “quasi il 100% della popolazione dopo dieci anni ancora residente in questi territori ha collaborato con le autorità di occupazione e separatiste in varie forme. Poiché in Ucraina la collaborazione è un reato penale, è facile supporre che un numero enorme di queste persone abbia paura del ritorno del potere ucraino sui loro territori”, ci racconta Andriy Movchan, analista e attivista di sinistra ucraino, che dal 2014 vive in Catalogna, dove ha ottenuto asilo politico in seguito a minacce dell'estrema destra ucraina.

“Si consideri che nello stesso Donbas, molti uomini hanno prestato servizio nelle formazioni militari separatiste, e all'inizio dell'invasione su larga scala ancora di più sono stati mobilitati per la guerra contro l'Ucraina. Come si inseriscono questi uomini nella realtà in cui vive oggi la stessa società ucraina? Nessuno ha una risposta a questa domanda.”

Si tratta di domande che hanno a che fare col futuro politico ed economico dello stato ucraino, e che potrebbero trovare una parziale risposta nell’ampliamento delle misure di welfare. Ci racconta Oksana Kuiantseva, membro del consiglio di amministrazione e responsabile dei programmi umanitari dell’organizzazione non governativa Vostok SOS: “Se pensiamo al reintegro dei territori e delle persone provenienti dalla regione di Donec’k e Luhans’k, penso che la maggior parte delle attività dovrebbero concentrarsi sul training professionale. C'è un grosso numero di gente che era impiegata nelle miniere e che difficilmente potrà continuare a svolgere lo stesso lavoro”.

In generale, spiega Kuiantseva, c'è una crescente richiesta di tutele che siano disponibili per tutti gli sfollati interni: “Occorre ampliare i servizi. Inoltre, credo che la pratica degli ‘spazi sicuri’ femminili possa aiutare a creare senso di comunità. Quello che facciamo in questi spazi sicuri è condurre degli incontri con le donne in cui possono spiegare anche le loro inclinazione lavorative, desideri... Molte persone in Ucraina sono piccoli imprenditori e dunque si possono avviare programmi per cui queste persone non saranno più dipendenti dagli aiuti umanitari. Ci sono molti casi di successo: sono stati aperti molti esercizi commerciali”.

Quale idea di nazione?

Ovviamente, un approccio basato sulle esigenze concrete e sufficientemente aperto da valutare caso per caso rischia di essere limitato se la nuova concezione della cittadinanza ucraina che viene forgiata dalla guerra verrà intesa in maniera rigida e in senso strettamente etno-culturale.

Argomenta l’attivista e ricercatrice Hanna Perekhoda, originaria di Donec’k: “Non bisogna dimenticare che nel corso di questa invasione la nazione ucraina, se intendiamo per ‘nazione’ una comunità solidale e di senso di appartenenza, si sta formando in senso politico. La maggior parte delle persone al fronte parlano un mix di russo, ucraino e altre lingue e generalmente si interessano poco delle questioni identitarie, linguistiche e culturali”.

Si potrebbe dire, anzi, che nel dibattito interno al paese aggredito si sia creato un certo “scollamento” fra la retorica impiegata da alcuni degli intellettuali più in vista e dei rappresentanti istituzionali, da una parte, e la percezione più prosaica e quotidiana del resto della popolazione, dall’altra.

Prosegue Perekhoda: “Alcuni dell’autoproclamata ‘élite intellettuale’ ucraina, per qualche motivo, vogliono imporre un progetto di costruzione della nazione etno-culturale che di fatto ricalca concezioni dell'inizio del XX secolo. Un modo di portare avanti il dibattito che trovo deleterio e controproducente: C'è una nazione già esistente, già aperta al mondo e all’integrazione di persone diverse in cui la costruzione di una società più aperta sta già avvenendo e tu la stai minando dall'interno con le tue fantasie ottocentesche”.

E non si tratta di un problema inerente alla sola radicalizzazione dello spazio interno ucraino: “a volte chi sta all'estero diventa ancora più identitario ed etno-nazionale, proprio perché vogliono provare di appartenere alla comunità, di essere dei ‘veri ucraini’”. continua Perekhoda.

Movchan, che vive all’estero da più di dieci anni, trova per questi motivi “difficile giudicare l’umore attuale in Ucraina”. In ogni caso, concorda sul fatto che l'invasione su larga scala abbia radicalizzato l'agenda della società ucraina.

“Per il primo anno e mezzo di guerra, quando la situazione militare era buona e vi era un crescente entusiasmo patriottico, non si parlava di compromessi per gli abitanti dei territori persi prima del 2022. Venivano presentate [nel discorso pubblico, ndr] solo le opzioni più massimaliste per la restituzione dei territori”, ci racconta.

“Ora, al terzo anno, l'ottimismo di un tempo è scomparso. Sempre meno persone credono nella realtà di raggiungere i confini del 1991. Pertanto, le discussioni sulle opzioni di reintegrazione scompaiono da sole. Tuttavia, non escludo che in futuro si verifichino bruschi cambiamenti della Storia”.

Verso la scomparsa del Donbas?

Abbiamo raccolto diverse interpretazioni - dalle più ottimiste a quelle pessimistiche, o più semplicemente realiste - e tutte richiamano un cambiamento nella strategia ucraina, così come la mancanza di fiducia nei confronti degli attori separatisti e di Mosca.

“La mia opinione non è cambiata: per poter lavorare con la popolazione dei territori occupati, l'Ucraina deve avere un piano di reintegrazione chiaro e dichiarato pubblicamente. Ora abbiamo pure bisogno di serie garanzie esterne per cui un eventuale piano di reintegrazione venga attuato esattamente come è stato annunciato. Tuttavia, tutto questo è molto più difficile da realizzare oggi che in passato”, ci racconta Oksana Mikheieva, professoressa alla Europa-Universität Viadrina Frankfurt (Oder) e all'Università Cattolica di Leopoli, e in precedenza all'Università Statale di Donec'k.

“Poiché ho cercato di intervistare le persone nei territori occupati ogni anno in seguito al 2014, posso dire che la possibilità di un ritorno abbastanza indolore di questi territori al corpo politico ucraino è rimasta fino al 2017-2018. Da quel momento in poi, è stato per me chiaro che questo ritorno non sarà più facile per nessuno. L'aggressione russa su larga scala ha ulteriormente minato la fiducia nel valore degli accordi e delle garanzie internazionali in quanto tali. Quindi ora tutto questo richiederà una serie di decisioni stratificate, complesse e spiacevoli”, conclude Mikheieva.

In questo senso, chissà che - in uno di quei “bruschi cambiamenti” della Storia evocati da Movchan - lo stesso oggetto della nostra indagine sia destinato infine a scomparire da un punto di vista semantico, proprio come sta tragicamente scomparendo fisicamente per la distruzione provocata da dieci anni di combattimenti casa per casa: da Mariinka a Bakhmut, a Mariupol’.

Come abbiamo cercato di mostrare, il “Donbas” è diventato nel corso del tempo un significante sempre più astratto e strumentalizzato da narrazioni mitologiche e propagandistiche, staccato dalla realtà del territorio e dal vissuto delle persone che lo abitano o lo hanno abitato. Senza contare, inoltre, che la Russia ne ha ufficializzato l’annessione alla Federazione.

Alcuni dei nostri interlocutori ci hanno anzi chiesto se fosse proprio necessario utilizzare il termine “Donbas”, cosa che dal loro punto di vista rischierebbe di fare il gioco di Mosca. Una richiesta che può suonare paradossale ma che, forse, costituisce il modo più realistico di pensare al futuro di una regione martoriata, oltre le mistificazioni concettuali.

Il dossier

Se l’invasione su larga scala dell’Ucraina sta entrando nel suo terzo anno, sono quasi dieci gli anni di aggressione e ingerenza russa nel paese, cominciati nel 2014 con l’annessione della Crimea e continuati con la guerra ibrida in Donbas. Molto è cambiato rispetto alla ‘prima fase’ della guerra russo-ucraina, ma il Donbas è rimasto una delle poche costanti: la regione continua a essere la zona più colpita, a livello umano e materiale, dai combattimenti. Un’ulteriore tendenza della “questione del Donbas” è che ad affrontarla siano molto più spesso giornalisti e analisti mai vissuti in quell’area – che si tratti di russi, ucraini occidentali o esperti stranieri – rispetto a chi nel Donbas è nato e cresciuto.

Il nostro progetto, composto da dieci puntate, nasce con l’obiettivo di raccontare gli eventi del recente passato della regione contesa con la consapevolezza e lucidità dell’oggi. Reintegrare il Donbas è diventato una priorità politica imprescindibile per Kyiv, mentre il congelamento dello status quo è essenziale negli obiettivi bellici di Mosca. Nessuna delle due parti in conflitto affronta però realmente le specificità della popolazione locale, o di ciò che ne è rimasto. Abbiamo raccolto numerose voci del Donbas “reale” che hanno lasciato la regione nel 2014-15 per trasferirsi altrove, in Ucraina o in Europa. Posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini. Abbiamo chiesto loro quale presente e futuro vedono per il Donbas, una casa in cui temono di non ritornare mai più.

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