Sono uno dei punti nodali degli accordi di Minsk e argomento di acceso dibattito politico in Ucraina. Ma le elezioni nelle aree fuori dal controllo di Kiev sembrano allontanarsi sempre un po’ di più ogni volta che vengono evocate
L’ultima volta che qualcuno ha sollecitato il presidente ucraino Petro Poroshenko a fare approvare la legge sulle elezioni nel Donbass separatista è stato al termine del summit Nato di Varsavia, lo scorso 9 luglio. I leader di Stati Uniti, Germania, Francia e Italia in un incontro a latere con Poroshenko hanno nuovamente sollevato la questione come condizione sine qua non per procedere sulla roadmap di pace.
La questione, però, è tutt’altro che semplice.
Il disegno di legge per le elezioni in “Ordlo” – acronimo per “alcune aree delle regioni di Donetsk e Luhansk” (in ucraino, Okremi Raiony Donetskoy ta Luhanskoy Oblastei), definizione ufficiale che evita attentamente di nominare le autoproclamate repubbliche separatiste – è pronto ormai da tempo. Il suo primo firmatario, il deputato del partito di Poroshenko Ruslan Kniazevych, pare ci stia lavorando da mesi. Nessuno dei suoi colleghi alla Verkhovna Rada, il parlamento ucraino, lo ha però ancora potuto vedere. Né se ne conoscono i dettagli. Nessuno sa se la legge potrà funzionare né se entrerà mai in vigore o addirittura se sarà portata al voto del parlamento, nemmeno quei politici che ne parlano per supportarla o criticarla.
Le ragioni di tanta segretezza risiedono certamente nella cautela politica che Poroshenko sta impiegando per affrontare il tema più spinoso dall’inizio del suo mandato. Ma anche nell’incertezza che avvolge la questione.
Il punto nodale degli accordi di Minsk
I protocolli siglati a Minsk prevedono che ci sia un “completo accordo politico” per poter instradare il Donbass verso la pace. Questo significa che Kiev dovrebbe garantire ai miliziani separatisti l’immunità per i crimini commessi in questi due anni di conflitto e farsi carico della ricostruzione delle zone devastate dalla guerra. L’Ucraina dovrebbe poi modificare la propria costituzione in senso autonomistico e trovare una via per dotare i territori fuori dal suo controllo di rappresentanti locali regolarmente eletti. Ed è qui che tutti i nodi vengono al pettine.
La legge speciale sulle elezioni in Ordlo dovrebbe garantire l’accesso ai candidati di tutti i partiti politici ucraini, il controllo delle operazioni elettorali con la partecipazione della polizia ucraina e – forse la cosa più importante – la conta dei voti con la supervisione della Commissione elettorale centrale. Tutte cose inaccettabili per le autoproclamate autorità separatiste, come ha sempre ripetuto il “presidente” della “Repubblica popolare di Donetsk”, Aleksandr Zakharchenko.
Ed è ancora tutto da chiarire come potrebbe essere garantito il diritto di voto alle centinaia di migliaia di rifugiati interni, scappati dalle zone di guerra e non più residenti in quei territori.
Finora Poroshenko ha mostrato di sapersi smarcare dalle forti pressioni internazionali, ma di certo il suo equilibrismo non potrà durare in eterno. Le voci sempre più frequenti di una sospensione delle sanzioni contro la Russia sono il sintomo di una crescente indifferenza dei partner occidentali nei confronti della crisi ucraina. E la sensazione che un po’ tutti non aspettino altro che di liberarsi del problema si fa sempre più forte anche nei palazzi di Kiev.
Il confine con la Russia
Nell’incertezza che regna sull’argomento, una cosa di sicuro già si sa. Il deputato indipendente Yuri Dervianko ha depositato alla Rada un altro disegno di legge, il numero 4719, che vieta espressamente ogni tipo di elezioni in Ordlo finché quelle zone saranno sotto il controllo dei separatisti e tutti i prigionieri di guerra non saranno rilasciati.
La cosa singolare è che il contenuto del disegno di legge di Dervianko è sostanzialmente condiviso da tutti i partiti rappresentati in parlamento, da quelli più nazionalisti fino a quelli che lo sono – eufemisticamente – meno. Come gli eredi del partito delle Regioni di Yanukovich, oggi Blocco dell’opposizione, il cui capogruppo Yuriy Pavlenko ha dichiarato che le elezioni saranno possibili solo dopo che “una serie di condizioni obbligatorie saranno rispettate, che i miliziani siano disarmati, che tutti i partiti ucraini siano rappresentati, che ci sia la presenza di osservatori internazionali e che sia ripreso il controllo del confine internazionale con la Russia”, oggi sorvegliato dai separatisti.
E si torna di nuovo agli accordi di Minsk e al punto sul ripristino della frontiera internazionale, un terreno su cui molto difficilmente i separatisti saranno disposti ad arretrare anche di un solo passo. Non è di sicuro un caso se un uomo come Serhiy Taruta – oligarca del Donbass tra gli uomini più ricchi d’Ucraina, ex governatore della regione di Donetsk durante lo scoppio della guerra, destituito da Poroshenko e poi eletto alla Rada nelle fila degli indipendenti – è sicuro che sia tutta lì la questione. “Se riprendiamo il controllo del confine, tutto il resto si rimetterà a posto velocemente e io sarò pronto a votare tutto”, ha detto Taruta commentando l’ipotesi di elezioni. “Per me non sono importanti le elezioni. Quello che è importante è controllare il confine”, ha aggiunto.
Partita aperta
Al di là delle dichiarazioni dei politici, ci sono sicuramente delle forze che oggi potrebbero trarre giovamento da una tornata elettorale in Ordlo. Due fra tutte, lo stesso Blocco dell’opposizione e i clan di oligarchi che hanno regnato nelle regioni dell’est negli ultimi vent’anni.
In uno scenario in cui gli elettori del Donbass, compresi i rifugiati interni, potessero dare il loro voto ai partiti ucraini, il Blocco farebbe di tutto per tornare a primeggiare in quello che è stato un suo feudo fino a poco più di due anni fa. Del resto, gli eredi del partito di Yanukovich è sempre nell’est che continuano a raccogliere voti, sia nelle tornate elettorali che nei sondaggi. Non sarebbe una sfida difficile, considerando anche che ex membri del partito delle Regioni occupano già oggi tutti i ruoli chiave nelle “repubbliche” separatiste, dal “presidente” di quella di Luhansk, Igor Plotnitsky, ai sindaci delle due “capitali”. Mentre i corridoi dei palazzi del potere a Donetsk continuano a essere affollati da uomini vicini a Rinat Akhmetov, oligarca più ricco d’Ucraina e “signore” del Donbass.
La legge speciale tenuta nel cassetto da Poroshenko avrebbe bisogno di 226 voti per essere approvata. Messa alla prova del parlamento, potrebbe teoricamente contare sui deputati del partito del presidente, del Blocco dell’opposizione e su quelli di un paio di altri partiti come Rinascita (Vidrodzhennia) e Volontà popolare (Volia Narodu), oltre ad alcuni deputati indipendenti. Difficilmente però potrebbe prendere i voti di partiti come Autoaiuto (Samopomich) del sindaco di Leopoli, Patria (Batkivshchina) di Yulia Tymoshenko, il Partito radicale di Oleh Lyashko e probabilmente anche il Fronte popolare (Narodniy Front) dell’ex primo ministro Arseni Yatsenyuk. Una partita aperta.
Il pensiero che unisce i partiti contrari, nazionalisti e antirussi, è stato forse meglio sintetizzato da un membro proprio di Autoaiuto, Yehor Sobolev. “Le elezioni nei territori occupati sono il completamento del piano di Putin per conquistare l’Ucraina con mezzi politici, dopo aver fallito con mezzi militari”, ha detto il deputato.
Una sintesi forse un po’ forzata ma che rende l’idea del vicolo cieco in cui si è ficcata l’Ucraina.