Da un lato l'Ucraina ottiene più libertà, grazie alla firma degli accordi sulla liberalizzane dei visti, dall'altro però alcune leggi di recente approvazione rischiano di farla retrocedere nel rispetto dei diritti umani
Le contraddizioni in Ucraina sono all’ordine del giorno, non è una novità. Da una parte il conflitto nel Donbass, mai veramente congelato, dall’altra il contest di Eurovision andato in onda a Kiev tra spettacolo, spensieratezza e musica pop. E mentre il presidente Poroshenko festeggia la sua principale vittoria politica sul piano interno, la firma degli accordi che permetteranno ai cittadini ucraini di visitare i paesi europei senza bisogno di un visto, crescono i dubbi sulla politica di Kiev in materia di ‘decomunistizzazione’ e libertà individuali.
Via dall’impero sovietico
La liberalizzazione dei visti da parte dell’Unione Europea è stata festeggiata a Kiev come una vittoria, non solo politica, ma anche, per certi versi, morale. Durante il suo recente incontro con Angela Merkel, il presidente Petro Poroshenko non ha mancato di sottolineare come la firma dell’accordo con l’Unione abbia un significato storico per il paese, evidenziando il “definitivo abbandono dell’impero sovietico e il ritorno dell’Ucraina nella famiglia dei popoli europei”. La decisione, rimandata per oltre due anni - tanto da provocare l’ironia dei social sui numerosi annunci delle autorità ucraine poi disattesi – significa secondo Poroshenko “il riconoscimento delle riforme, dei cambiamenti radicali che hanno avuto luogo nel paese durante gli ultimi tre anni”. Ma il distacco dal passato sovietico non si sostanzia solo tramite la libera circolazione dei cittadini ucraini sul continente europeo. Le tanto discusse leggi sulla ‘decomunistizzazione’ che, in maniera un po’ grossolana condannano i regimi totalitari nazista e comunista di fatto equiparandoli, tornano a far parlare di sé proprio in concomitanza con l’avvicinamento all’Europa da parte di Kiev.
Condanna per "propaganda comunista"
Anche se la notizia è passata in secondo piano, a far discutere è stata di recente la prima condanna ufficiale di un cittadino ucraino per "propaganda comunista". A farne le spese è stato uno studente universitario di Lviv colpevole, secondo la sentenza, di aver “utilizzato intenzionalmente” il proprio account Facebook per “diffondere un’informazione tendenziosa volta all’idealizzazione e popolarizzazione dell’ideologia comunista – tramite la pubblicazione di – materiale contenete simbologia del regime sovietico”. Al colpevole, di cui non è stato reso pubblico il nome, è stato sequestrato e distrutto materiale che presentava chiari riferimenti al regime comunista sovietico, come cartoline, bandiere e alcuni documenti storici tra cui tessere del Komsomol e ‘Il capitale’ di Karl Marx.
La condanna a 2 anni e 6 mesi di detenzione, con beneficio della sospensione condizionale di 1 anno, trae la sue validità giuridica proprio dal pacchetto di leggi approvato nel 2015 che, oltre ad equiparare il regime nazista e quello comunista, avvia di fatto la cosiddetta ‘decomunistizzazione’ del paese . Un processo, a ben vedere, tutt’altro che lineare che ha destato preoccupazione anche nella comunità accademica internazionale. La paura di molti storici, infatti, è che una revisione unilaterale in chiave nazionalistica delle pagine più controverse della recente storia del paese, legata alla rivalutazione di organizzazioni (UPA) e figure come quella di Stepan Bandera, possa non solo creare ulteriori divisioni all’interno del paese, ma anche delegittimare l’immagine dell’Ucraina agli occhi dei partner europei .
I dubbi della Commissione di Venezia
Ad avanzare i primi dubbi sulla legislazione della Verkhovna Rada in materia di memoria storica è stata la Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto, comunemente conosciuta come Commissione di Venezia. La sua analisi congiunta con l’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani OSCE del pacchetto legislativo in materia di ‘decomunistizzazione’ è stata pubblicata già nel dicembre 2015 . La Commissione riconosce all’Ucraina il pieno diritto di “proibire o anche criminalizzare l’uso di certi simboli e la propaganda dei regimi totalitari”, ma non manca di sottolineare limiti e problematiche delle leggi in esame. In primo luogo viene evidenziata la vaghezza delle disposizioni che, dopo un’attenta analisi, risultano “poco precise – e potenzialmente incapaci – di prevenire interferenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche”. Le sanzioni, fino a 5 anni di detenzione, risultano sproporzionate rispetto agli obiettivi e la definizione di concetti come ‘propaganda’, ‘simbologia’ e ‘negazione dei crimini dei regimi totalitari’ appare vaga e incapace di definire un’incontrovertibile linea di comportamento per i cittadini. Il rischio, conclude la Commissione, è che il pacchetto legislativo possa influire negativamente sulle libertà individuali e di associazione, minando il “ruolo cruciale dei partiti politici nel garantire pluralismo e il corretto funzionamento della democrazia”.
Qui, il riferimento alle controverse vicende del Partito Comunista Ucraino appare evidente. Dopo Euromaidan, infatti, il partito è finito sotto pressione da parte del nuovo governo. Accusato di sostenere il separatismo nel Donbass e di essere la quinta colonna del Cremlino in Ucraina, il Partito Comunista è stato definitivamente bandito nel gennaio del 2016 proprio grazie al pacchetto di leggi sulla ‘decomunistizzazione’, provocando forti critiche da parte di numerose organizzazioni che si occupano di libertà e diritti umani.
Libertà in pericolo?
La condanna dello studente di Lviv, però, non è l’unico episodio controverso degli ultimi mesi. Di recente, a provocare forti critiche, ad esempio, sono stati una serie di emendamenti alla legge anti-corruzione . L’estensione dell’obbligo di pubblicare il proprio patrimonio personale a organizzazioni e giornalisti coinvolti nella lotta alla corruzione, potrebbe limitare, secondo il Kharkiv Human Rights Protection Group, l’indipendenza di tali organizzazioni, e più in generale della società civile, portandole all’autocensura. Seppur diverso nella sostanza, il provvedimento ricorda la famosa ‘legge sugli agenti stranieri’ in Russia.
Infine ci sarebbe anche il recente blocco dei principali siti e social networks russi (Mail.ru, VKontakte, Odnoklasniki ecc), molto popolari in Ucraina e in tutto lo spazio post-sovietico. La decisione, giustificata come misura necessaria nella guerra ibrida con la Russia, mette in discussione l’impegno di Kiev nel garantire la libertà di internet. A criticare tale scelta, infatti, è stato anche il Consiglio d’Europa che tramite le parole del Segretario Generale Thorbjørn Jagland , ha espresso la sua preoccupazione definendola “sproporzionata” e contraria “alla comune comprensione della libertà d’espressione e libertà dei media”.
Con la liberalizzazione dei visti l’Ucraina ha fatto senza dubbio un passo verso l’Europa. Il pericolo è che, in parallelo, ne possa fare due nella direzione opposta.