(foto Flickr)

Racconto inedito in italiano di Aka Morchiladze - Tre di vite. Traduzione a cura di Nodar Ladaria.

19/01/2010 -  Anonymous User

In principio c'era il lido. Sul lido si ergeva una colonna greca che oggi non esiste più.

Al lido faceva le moine l'acqua. A volte insisteva e perfino si infuriava.

Il monaco Dositeo stava tutto rannicchiato sullo scrittorio del monastero e dal vastissimo talare si vedevano soltanto tre dita pallide con unghie molto lunghe. Le dita tenevano una lunga e antica penna, fatta d'un morbido legno. Il monaco la intingeva nell'inchiostro di mora e scriveva la cronaca di ciò che era avvenuto nell'isola negli ultimi dieci anni. Scriveva in un bellissimo minuscolo, lievemente inclinato.

A quel tempo il villaggio era piccolo. I campi si distendevano in mezzo all'isola. Il giorno era immerso nel silenzio. Si udiva solo il tranquillo mormorio delle onde.

Il monaco Dositeo dalla sua finestra poteva vedere il lido del mare, proprio quel tratto di costa, dove c'era una semplice colonna dorica in mezzo a ruderi biancastri. Anche il villaggio, per volontà di Dio, era disteso sotto il suo sguardo. Questa disposizione del villaggio era simile a un pranzo frugale, imbandito per terra, su una tovaglia stesa da uno dei commensali. Come se tutti avessero tirato fuori il cibo dai loro fagotti con tale generosità che nei fagotti non era rimasto niente.

Dositeo abitava nel monastero sin dall'infanzia. Un tempo lo avevano portato qui da Samtskhe. Fu l'unica volta che aveva viaggiato in nave. Lo zio lo aiutò a saltare sulla riva, perché era in preda alla nausea e gli disse:

— Non ti capiterà forse un altro viaggio. Ricordati bene questo...

I monaci sapevano tutto: i costruttori del monastero fecero le finestre larghe. Era tempo di guardare attorno, osservare luoghi lontani. Allora il mondo era vero, il re regnava davvero e le spedizioni erano verso luoghi lontani. Anche la forza che abitava nel corpo era potente e la fede che investiva le anime profonda. Le case di allora si costruivano così e forse anche le abitazioni monastiche, l'architetto le aveva disegnate con il suo occhio laico.

Il dovere del monaco Dositeo era colorare i libri. Così si chiamava allora lo scrivere. E anche la scrittura, il libro stesso si chiamava coloritura.

Scriveva una cronaca, semplice come una cena di quaresima.

"Il siniscalco Goti diede all'esercito le navi da viaggio e visitarono le coste straniere comprando broccati, rasi di seta, berretti magici".

"E nel mese di marzo infuriarono i venti, vigorosi da sollevare in aria i sassolini piccoli e da farli volare in mezzo agli stormi d'uccelli e farli sbattere sulle mura e sulle porte d'ogni castello e di ogni dimora umana".

"Il siniscalco Goti diede sua figlia in moglie a Gvaramiani, figlio di Vardan; lo sposo venne con le navi e portò con sé la sposa e fece una gran festa. Il siniscalco Goti donò al nostro santo monastero un calice d'argento ornato di turchesi".

Il monaco Dositeo vedeva una donna che quasi tutti i pomeriggi attraversava i vicoli del villaggio, giungeva fino alla colonna greca, si metteva a sedere e rimaneva così fino al tramonto.

Ma è possibile, pensava Dositeo, che quella donna non abbia marito né qualche altro parente, a cui portare la merenda nel campo? Poi spiandola scoprì che era sposata ma non aveva figli. Il marito era un mercenario del siniscalco. Di sera, cavalcando un mulo, tornava dal castello, dove durante la notte restavano solo le sentinelle di servizio per far bruciare sulle torri le biche di fieno per dimostrare al cielo e al mare l'esistenza dell'isola.

Era bello vedere come prendeva fuoco il fieno nella notte, anche quasi spento si delineava incantevole sullo sfondo nero. Nel monastero facevano suonare la campana e alimentavano dei falò quasi spenti. La campana dell'alba le sentinelle la salutavano facendosi il segno della croce. Poi andavano giù, nelle capanne. Chi non possedeva una capanna, rimaneva lì, perché aveva nel castello il proprio letto.

Quando il monaco Dositeo andava nello scrittorio pieno di finestre, sistemava la penna e il calamaio così da poter comodamente guardare dalla finestra.

Guardava come appariva la donna al margine del bosco, come seguiva scalza la riva sabbiosa, come copriva le spalle con una mantiglia e poi subito si metteva a sedere sotto la colonna. Il monaco Dositeo pensava che l'avessero costretta troppo presto a sposare il mercenario. Doveva essere sposata ormai da dieci anni, ma Dio non le dava la prole. Forse era la moglie di quell'uomo che quattro volte all'anno era solito portare al monastero un piccolo dono, una ciotola piena di monete di rame. Quest'uomo lamentava l'assenza di figli. Da lontano era difficile vedere le facce della donna e del mercenario.

Forse la donna sedeva sulla riva del mare perché le mancavano i suoi, il villaggio natio, oppure qualcuno o qualcos'altro, e guardando il mare pensava che la sua patria era lì.

Ma la donna guardava in un'altra direzione. Verso occidente il mare non aveva termine e se voleva guardare verso il proprio villaggio, la donna doveva sedere altrove, sulla sponda opposta dell'isola. Da quella parte, dopo due isole c'era la riva del mare, e dopo dieci giorni di viaggio si poteva raggiungere il suo villaggio.

Forse la donna non conosceva la disposizione del mondo, il significato del sorgere e del tramontare del sole, non sapeva né leggere né scrivere, ma sapeva invece mettere del sale nella minestra senza aver bisogno di misurarlo.

Il monaco Dositeo ogni giorno vedeva questo spettacolo tra preghiere, canti e altre funzioni sacre. Col passar del tempo questo diventò il suo spettacolo più gradito e famigliare. Così era d'autunno e d'inverno. Il mormorio dell'acqua e la donna sotto la colonna. Era così abituato a vedere quella donna che non riusciva a immaginare la riva senza di lei. Allungava il collo e la guardava. Anche senza guardarla l'aveva davanti agli occhi, perché il suono del mare gliela faceva ricordare. Il suono del mare non muore. Tutto si calma, ma il suono del mare mai. Come se davvero respirasse. Inspirazione, espirazione. Inspirazione, espirazione. Come un essere umano.

Era il mese d'agosto e si avvicinava la quaresima della Dormizione, quando al monaco Dositeo parve che al rumore delle onde si mescolasse un'altra voce.

Prima non ci fece caso. Ma poi s'accorse che la voce ora taceva, ora di nuovo seguiva il fluire delle onde. Così continuò a lungo, poi il monaco si alzò, andò alla finestra pensando che la donna, come sempre, stesse seduta sotto la colonna e cantasse con il mare. Non poteva essere la voce di qualcun altro, era troppo armonizzata con il mormorio delle onde. Chi sa cantare, chi conosce l'alto e il basso, chi riesce a seguire le miracolose vie della voce verso il cielo, non può sbagliare. E il monaco non sbagliò. La donna seguiva con la voce il movimento dell'acqua. Non soltanto lo seguiva, ma si fondeva con lui. Così come i georgiani cantando sono soliti accordare le loro voci. Perciò il canto della donna andava bene con quello del mare, anzi, l'onda era come una sorta di strumento, simile a quei liuti che nelle case del diavolo sapevano gemere languidamente sotto le dita dei suonatori empi. Ma lo strumento del mare non accompagnava in maniera empia e l'armoniosa voce della donna non somigliava allo svago dei pagani. Era una voce priva di parole, melanconica, disperata, supplichevole e la donna stessa languiva come il mare. Si lamentava imitando il motivo delle onde e il suo lamento, secondo le regole del canto, si univa al tono del mare.

Anche altri abitanti del monastero sentirono quella voce, ma il monaco Dositeo non disse nulla. All'indomani si ripeté la stessa scena: la donna di nuovo cantava con le onde.

Questo continuò ogni giorno, eccetto le feste.

Di solito, sull'isola non si sentivano i canti, neanche la musica degli strumenti. Una volta sola, quando il siniscalco maritò la figlia, si radunarono insieme i suonatori, ma il superiore del monastero non rimase contento. Talvolta i contadini cantavano nei campi i canti di lavoro, portati dall'altra riva del mare, ma quelli non si sentivano attraverso il bosco e, a dir vero, i contadini cantavano di rado. I monaci solo una volta udirono il loro canto armonizzato, quando erano andati a raccogliere le erbe. Ma come definire la voce della donna sulla riva del mare? In quella non v'era parola, né una lode e neanche il languore del piacere. Era solo una voce e il monaco Dositeo pensò che quella voce era ciò che la donna pensava e serbava dentro di sé, perché non aveva parole.

Le onde battevano in questo modo: una sommessa e con respiro, l'altra ancora più sommessa e pure con respiro, poi più forte, lunga e vigorosa con due respiri, poi ancora più forte con un solo respiro, poi una alquanto più debole e un respiro, poi di nuovo una sommessa con respiro, poi una ancor più sommessa. Dopo aver ripetuto questo per tre volte, il mare cominciava a parlare in un altro modo, dopo aver ripetuto quattro volte, faceva seguire un altro modo ancora che con un certo passaggio tornava di nuovo nel primo modo, ma questo passaggio era impercettibile per l'orecchio.

Il monaco Dositeo ci mise tanto ad ascoltare e a calcolare tutto questo. Ma intuì che la donna lo sapeva perfettamente.

Poi venne l'autunno e poi il Natale. Le finestre si chiusero, il mare s'agitava. Le onde erano diverse, forti, alte, stridenti come una voce invincibile di un esercito levatosi lontano, un gemito laborioso di diecimila vele tese sotto la tormenta, un tetro tumulto di trombe e tamburi. Era proprio la voce di una legione che fremeva e sbuffava sdegnosa prima dell'attacco. Chissà, forse era un avviso funesto della schiera celeste. Nonostante ciò la donna stava seduta sempre lì, avvolta in un mantello da uomo. E la sua mantiglia rossa spiccava in mezzo al temporale.

Eppure si sentiva la sua voce, retta e giusta nonostante la furia degli elementi. Chi s'intendeva di canto l'avrebbe potuto capire. Il monaco ogni tanto apriva un po' la persiana. Nel freddo era difficile muovere agilmente la penna e la finestra aperta poteva guastare l'inchiostro di mora. Il monaco sorvegliava e vedeva con quale coraggio e forza la donna cantava al cospetto del mare e nella sua voce ormai si sentiva non soltanto una tristezza ineffabile, ma anche la ribellione. Era difficile sedere a quello scrittoio, in mezzo alle pelli di vitello, quando attraverso le persiane non si udiva il canto della moglie del mercenario.

Più tardi, quando arrivò il sole della Pasqua, i bambini vennero ad ascoltare la donna che cantava col mare. Forse vennero per caso: la riva della colonna era un luogo per niente attraente per coloro che popolavano il villaggio. La pesca era più abbondante nei pressi del castello. Si diceva che attorno alla colonna il fondo del mare fosse pieno di piante spinose e i pesci lo evitavano per non graffiarsi il ventre.

Ma i bambini vennero lo stesso. Forse avevano smarrito la strada, forse erano stati attratti dalla voce che si distingueva nel mormorio dell'acqua, non si sa.

Vennero, ma corsero via all'improvviso, com'è proprio dei bambini. Forse ebbero paura perché la donna li vide. Il monaco Dositeo non riuscì a capire, non capì neanche il grido della donna che si alzò e inseguì i bambini. Vedeva soltanto che lei cercava di spiegare loro qualcosa, forse voleva farli cantare con il mare.

La voce dei bambini non si sentiva, ma d'estate cominciò a sentirsi anche quella. Alcuni venivano al monastero per studiare canto. Il monaco non chiese a nessuno, come si chiamava quella donna e non scrisse una riga nelle cronache isolane.

Poi anche altri vennero ad accompagnare con la propria voce il mormorio delle onde.

Nel monastero cominciarono a parlare dei villani cantanti sulla riva, soltanto quando un mezzogiorno in prossimità della colonna apparve il siniscalco stesso accompagnato da dieci cavalieri. Tutti scesero giù. Soltanto il siniscalco rimase in sella ascoltando come cantava la donna con il coro dei suoi discepoli, in maggioranza bambini, ma anche due o tre ragazze da marito. Questo continuò a lungo.

I monaci stavano appiccicati alle finestre. Videro come il siniscalco chiamò uno dei suoi cavalieri, come quello si accostò e s'inginocchio davanti al signore. Il siniscalco gli disse qualcosa e il cavaliere chiamò la donna. Anche la donna s'inginocchiò accanto al marito. Il siniscalco scese dal suo destriero e la fece alzare. In piedi davanti a lei le parlò dolcemente.

Poi i monaci seppero che gli occhi del siniscalco s'inumidirono di lacrime perché il canto gli fece ricordare tanti dolori e sofferenze. Nessuno vide che cosa aveva regalato al mercenario e a sua moglie. Non potevano vedere niente, ma il monaco Dositeo capì che era finita una storia e ne era cominciata un'altra.

Il monaco Dositeo, alto e magro, tutto nascosto nella barba nera, un po' storpio, goffo nel lavoro manuale, ardente nelle preghiere e fermo nella fede, abilissimo cronista durante la quaresima di San Pietro e Paolo, dopo la compieta raccomandò la sua anima a Dio. Dopo l'ufficio uscì nel chiostro e si diresse verso la scala di legno che portava su verso lo scrittorio. Salendo cadde.

Era monaco da ventisette anni. Ne aveva dodici quando lo portarono al monastero, sedici quando prese i voti, quarantatre quando morì.

Il mercenario divenne capitano, sua moglie visse a lungo, perse anche il marito. Più tardi quando la storia si tramandò nel corso dei secoli, qualcuno disse che la canzone, che nelle nostre isole va cantata soltanto dalle donne, sorse dal lamento di una vedova.

Così nacque in questo piccolo luogo un canto. Fu chiamato crucciata.

Nel lamento non ci sono parole. C'è soltanto la voce, due voci.

I love you baby.

La crucciata era la cosa più strana ed inattesa che si poteva trovare nelle isole Santa Esperanza. La si cantava soltanto nei nove club di Santa City e mai in pubblico. Ma le cassette, i CD e prima i vinili li trovavi in ogni angolo e si vendevano a bizzeffe.

Ma si potevano ascoltare soltanto a casa propria a condizione di non disturbare nessuno.

Questo rigore era una tradizione inglese dell'Ottocento. Allora nel reggimento che stava sull'isola si uccisero tre ufficiali uno dopo l'altro. All'inizio si pensò a delitti misteriosi, ma poi il dottore Birch espresse l'opinione che gli ufficiali erano stati portati al lido del mare dalla tristezza insuperabile delle crucciate.

In quei tempi le canzoni venivano cantate al tramonto. Sulla riva del mare si accendevano i falò e le donne solitarie cantavano avvicendandosi fino all'alba. Vicino ai falò c'erano le ciotole di rame, dove l'ascoltatore metteva un suo dono. Nessuno ne misurava la quantità, essa dipendeva dal sentimento provato.

Gli ascoltatori quasi non potevano vedere le donne, gli stranieri se ne innamoravano.