Doccia fredda per Belgrado al recente summit europeo del 9 dicembre. La valutazione in merito all'ottenimento dello status di Paese candidato slitta a marzo. Tempi duri per i Balcani occidentali, eccetto per la Croazia che firma il trattato di adesione e nel luglio 2013 diventerà il 28° membro dell’UE
La correzione di rotta dell'ultima ora non è bastata. Il summit europeo dell'8 e 9 dicembre ha rinviato a marzo la decisione sul conferimento dello status di candidato all'Unione europea della Serbia, malgrado Belgrado si fosse allineata in extremis alle condizioni che le erano state imposte dai 27, sotto dettatura della Germania.
Il cancelliere tedesco era stato chiaro fin da agosto: arrivando a Belgrado dopo settimane di tensioni nel nord del Kosovo, dove la maggioranza serba aveva risposto con le barricate al tentativo delle autorità di Pristina di prendere il controllo di due posti di frontiera, Angela Merkel aveva avvisato che la ricompensa UE non sarebbe arrivata fino a quando la Serbia non avrebbe “normalizzato” i rapporti con la sua ex provincia.
Per Belgrado, questo non significava riconoscere Pristina, richiesta difficile da imporre da parte dell'Unione europea visto che cinque dei suoi stati membri condividono la posizione negazionista di Belgrado. Significava invece tagliare i ponti con le frange serbo-kosovare più violente, le cui azioni, agli occhi di Berlino, venivano tollerate - se non direttamente finanziate - dalla Serbia.
Fine della politica "sia Kosovo che UE"
Per il Presidente serbo Boris Tadić, si trattava dunque di rinunciare all'illusione di poter perseguire allo stesso tempo una politica revanscista nei confronti di Pristina e una di integrazione verso Bruxelles. Tadić ha provato tuttavia a barcamenarsi su entrambi i fronti, siglando da una parte gli accordi di frontiera con il Kosovo richiesti dall'Ue, e continuando dall'altra a chiudere un occhio di fronte ai serbo-kosovari che di applicare quegli stessi accordi non ne volevano sentir parlare.
Finché il gioco non gli è scappato di mano: a fine novembre gli irriducibili serbo-kosovari sono passati dal lancio di pietre a quello di proiettili, colpendo un paio di soldati tedeschi e otto militari austriaci della NATO. Solo allora Tadić ha preso pubblicamente le distanze da loro, lanciando un appello per lo smantellamento delle barricate.
La reazione di Merkel agli scontri in Kosovo non si è fatta attendere: di fronte al parlamento tedesco, illustrando i temi del vertice Ue ad una settimana dall'appuntamento, ha dichiarato che le ultime violenze avrebbero negato alla Serbia la possibilità di fare passi avanti verso Bruxelles. E non c'è stato verso di smuoverla.
La Serbia rimandata a marzo
A nulla è servito il nuovo accordo riparatore con cui gli uomini di Tadić si sono impegnati – a poche ore dal discorso di Merkel, e al termine di una maratona negoziale di tre giorni - a concedere davvero alle autorità di Pristina il controllo delle frontiere nel nord del Kosovo. Né sono bastate le successive azioni di smantellamento delle barricate, avviate lunedì scorso.
Dal vertice della settimana scorsa è arrivata solamente la promessa che lo status di candidato della Serbia verrà riesaminato dai ministri degli Esteri UE a febbraio, e forse concesso dalla prossima riunione dei capi di stato e di governo, all'inizio di marzo. Ma solo – si legge nelle conclusioni del summit - se entro quelle date la Serbia avrà “continuato a mostrare un impegno credibile” e “compiuto ulteriori progressi” nell'attuare “in buona fede” gli accordi con il Kosovo previsti dal negoziato UE.
Il primo ministro polacco Donald Tusk – rappresentante della Presidenza di turno UE – ha ammesso ai giornalisti che gli sarebbe piaciuto “fare di più.” Ma il suo ministro agli Affari europei, Mikolaj Dowgielewicz, aveva previsto qualche giorno prima che il cambio di rotta di Tadić non sarebbe bastato per far cambiare idea alla Merkel. “E' arrivato troppo tardi,” aveva dichiarato.
Il rinvio lascia a Tadić a bocca asciutta, e alle prese con una crisi politica: il suo vicepremier, Božidar Đelić, si è dimesso, mentre l'opposizione reclama la sua testa, visto che il tardivo cedimento sul Kosovo non ha prodotto i risultati sperati. Ma i dirigenti UE, coscienti che il presidente serbo rappresenta comunque il migliore degli interlocutori possibili a Belgrado, gli hanno lasciato l'opportunità di raddrizzare la situazione entro qualche mese, dandogli una chance di presentarsi con la candidatura Ue in tasca prima delle elezioni della primavera prossima.
Subito dopo la decisione del vertice , il capo della diplomazia UE Catherine Ashton e il commissario UE all'Allargamento, Štefan Füle, hanno provato a indorare la pillola. “Siamo ansiosi – hanno detto in una dichiarazione congiunta – di vedere la Serbia avanzare nel cammino verso l'Unione europea nel prossimo futuro, e confidiamo nel fatto che la Serbia sarà in grado di compiere i passi finali che permetteranno di prendere una decisione sullo status di candidato a febbraio”.
La Croazia firma il trattato di adesione
Al vertice UE, tuttavia, qualche buona notizia per i Balcani non è mancata: per la Croazia è arrivata la firma del trattato di adesione , che – salvo imprevisti per ora non all'orizzonte – le dovrebbe permettere di diventare il 28esimo membro dell'Unione il 1° luglio 2013; per il Montenegro, la promessa di avviare i negoziati di ingresso a giugno 2012. Ma solo – i leader UE si sono sentiti in dovere di puntualizzare – se il suo continuo impegno contro la corruzione e la criminalità organizzata verrà certificato da una relazione della Commissione europea attesa all'inizio dell'anno prossimo.
Per i Balcani, insomma, gli esami europei non finiscono mai. Il Presidente UE Herman Van Rompuy ha cercato di presentare la cosa nel modo meno brutale possibile. “Il successo della Croazia – ha detto – dimostra a tutti nella regione che attraverso l'impegno, la persistenza, il coraggio politico e la determinazione, l'ingresso UE è a portata di mano.”