Un libro fotografico - ma non solo - che guarda alla città di Sarajevo dagli occhi dei cecchini. È uscito l'11 novembre scorso per Bottega Errante Edizioni "Shooting in Sarajevo", firmato da Luigi Ottani e curato da Roberta Biagiarelli
Tutto è cominciato nell’intreccio tra una parola inglese dal doppio significato, “shooting” e una città che è stata presa di mira da due visuali diverse durante una guerra durata 4 anni: Sarajevo è stata infatti inquadrata e fotografata nella sua terribile veste di città sotto assedio, i suoi cittadini sono stati osservati attraverso il mirino dei fucili di precisione e colpiti dai cecchini.
Come scrive Luigi Ottani, il fotografo autore degli scatti inseriti in “Shooting in Sarajevo” libro di fotografie e testi appena uscito con Bottega Errante Edizioni , questo intreccio lo ha portato a una metamorfosi: “All’inizio, preoccupato quasi esclusivamente degli aspetti tecnici, mi domandavo a quanto corrispondesse il cannocchiale di un Zastava M76, il fucile di precisione utilizzato in quella regione. Un 300 millimetri? Un 600? Poi, con il passare del tempo, la prospettiva e la focale hanno perso d’importanza. Io sono diventato il cecchino e il suo bersaglio. I miei pensieri sono diventati i loro pensieri. Non avevo assolutamente considerato che intraprendere questo 'viaggio' in una città che per quattro anni è stata sotto assedio potesse diventare pericoloso. Così è stato. Nel racconto di Sarajevo, seppure vent’anni dopo, mi sono trovato io dietro quel mirino”.
Il progetto
Un progetto che Luigi Ottani ha intrapreso nel 2015 con Roberta Biagiarelli, attrice, esperta di Balcani e legata a doppio filo con la Bosnia Erzegovina, come ci racconta lei stessa: “All’inizio tutto è nato dalla semplice idea di fotografare dagli stessi luoghi da cui i cecchini hanno tenuto in scacco la città durante l’assedio. Nel tempo invece l’idea si è poi stratificata, ben consapevoli di andare a lavorare su un tema molto delicato soprattutto per rispetto delle vittime. Questa stratificazione è avvenuta anche perché la realizzazione ha richiesto tempo: ci abbiamo messo 5 anni, scattando tutte le volte che andavamo a Sarajevo ed ogni nuovo scatto ci portava a nuovi ragionamenti”. Tra questi anche un parallelo con i nostri giorni: “Ci ha portati a pensare a cosa siamo tutti noi oggi. ‘Cecchini’ ci attorniano ogni giorno… dagli algoritmi che ci inseguono, alle fake news che subiamo, a questo mondo intorno a noi che ‘spara’, che non colpisce i corpi ma colpisce in maniera altrettanto crudele i nostri cervelli”.
Quello che inizialmente voleva essere un percorso verso la realizzazione di un libro solo fotografico o di una mostra, si è invece rivelato un po’ più articolato e ha portato Ottani e Biagiarelli a chiedere ad alcune persone di scrivere dei testi. Persone note a tutti coloro che viaggiano in quelle terre da anni. “Da Jovan Divjak, che è stato un po’ il nostro mentore, ad Azra Nuhefendić che ci ha portati a casa sua ed è venuta con noi tante volte in questi 5 anni”, spiega Biagiarelli. Poi Carlo Saletti, storico, che ha già collaborato con Ottani e Biagiarelli nel 2016 alla realizzazione di “Dal libro dell’Esodo” (Piemme edizioni), nato dall’esperienza fatta dagli autori nell’agosto del 2015 sul confine greco-macedone, in una settimana di cammino fianco a fianco con i migranti lungo i binari del treno tra Gevgelija e Idomeni.
Ma anche due giornalisti: Gigi Riva, all’epoca del conflitto inviato del Giorno e al quale è stata conferita la cittadinanza onoraria di Sarajevo, e Mario Boccia, che dal 1991 nel racconto delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia ha unito l’occhio del fotoreporter e la penna del giornalista. L’apporto di Boccia ha un forte significato secondo Roberta Biagiarelli: “Ha accolto con grande generosità il nostro progetto. Una disponibilità non scontata se si pensa che lui è un fotografo! È difficile che un fotografo scriva dentro a un libro di un altro fotografo... Lui, che oltretutto i cecchini li ha fotografati veramente, durante la guerra. Il suo scritto è secondo me fondante”.
“Sono fotografie che turberanno chi ha vissuto l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna (aprile 1992 - marzo 1996). Sicuramente non lasceranno indifferenti i suoi cittadini. È probabile che ciascuno di loro sia stato inquadrato almeno una volta nel mirino telescopico del fucile di precisione di un tiratore scelto degli assedianti etno-nazionalisti serbo-bosniaci. Un nemico insidioso, nascosto, che poteva porre termine alla vita degli altri, a sua discrezione, senza rischiare la propria”, scrive Mario Boccia. Ma aggiunge che rimarranno impresse anche in chi è stato ‘ospite’ di Sarajevo in quegli anni: “Noi, i privilegiati che entravano e uscivano liberamente durante quei quarantasette mesi d’isolamento: giornalisti, operatori umanitari , membri delle agenzie delle Nazioni Unite, ecc. Tutti sotto tiro, anche se muniti di accrediti plastificati, elmetti, giubbotti anti-proiettile e, a volte, di macchine blindate. Sarajevo è rimasta nel cuore di tutti per la sua somiglianza a molte delle città dalle quali venivamo. In verità ne era la bella copia. Capace di migliaia di gesti solidali e disinteressati ai quali non siamo più abituati.”
I luoghi
La solidarietà e la disponibilità di cui parla Boccia, è stata fondamentale per riuscire a trovare i luoghi da cui i cecchini sparavano, sottolinea Ottani: “Grazie a Roberta, che ha contatti di lungo corso nei Balcani e a Sarajevo, siamo riusciti a farci aiutare da alcune persone. La prima volta siamo andati nell’appartamento di un’amica, nel quartiere di Grbavica, situato in un palazzo dal quale durante la guerra un cecchino sparava. Poi, accompagnati da Faris Fočak, siamo andati su una montagna da cui abbiamo cominciato a inquadrare i punti strategici della città, come il ponte Vrbanja, con un teleobiettivo che avesse la stessa prospettiva focale che avevano i cecchini. Mentre Jovan Divjak ci ha accompagnati all’Holiday Inn, dove ho scattato diverse foto dalle finestre della stessa stanza da cui erano stati sparati i primi colpi da un cecchino il 5 aprile 1992, quando nell’albergo ci abitava ancora Radovan Karadžić con la famiglia”.
Il cecchino. Una figura attorno alla quale Roberta Biagiarelli pensava tempo fa di dedicare un lavoro teatrale: “È un argomento delicato che aveva mosso in me il desiderio di approfondirlo sul piano teatrale, con l’idea di fare uno spettacolo dal punto di vista del cecchino: un uomo – o donna - normale, il giorno prima fa il padre o la madre di famiglia, poi si mette un vestito, imbraccia l’arma e va a ‘lavorare’ da cecchino. Poi torna alla vita normale. È questa impunità, parola per altro con cui chiudo il mio testo inserito nel libro, che mi ha sempre molto sconvolta”.
Uno stato d’animo che Ottani esprime anche in un passaggio del suo testo: “Vedere da quelle postazioni quanto fosse esposta la gente di Sarajevo mi ha creato un grande disagio. Più di una volta ho chiesto loro, ai sopravvissuti, perché uscissero in quegli incroci, in quelle strade, su quei ponti per continuare a fare la vita di ogni giorno. Per me era troppo pericoloso e insensato. Molti di loro mi hanno risposto: «Noi vivevamo e basta!».”
E si è vissuto sotto bombardamenti e costante tiro dei cecchini, adottando strategie di sopravvivenza e di resistenza. Lo racconta nel suo testo, con tagliente lucidità, la giornalista e scrittrice Azra Nuhefendić: “Con il passare del tempo e il proseguire della guerra, abbiamo imparato a proteggerci. Perché avevamo voglia di sopravvivere, o lo facevamo per dispetto contro coloro che volevano sterminarci. Si sceglievano i percorsi più sicuri, si passava là dove le barricate facevano da scudo ai mirini dei fucili. Abbiamo imparato che, tra uno sparo e l’altro di un cecchino, c’era il tempo di contare fino a 15: durante quei pochi secondi, avevamo appena la possibilità di attraversare un incrocio o correre da una strada all’altra. (…) Avevamo imparato molte regole di guerra e di sopravvivenza, ci eravamo abituati al pericolo e alla morte, alla sofferenza e alla desolazione che si provano quando si viene colpiti ingiustamente. L’unica cosa alla quale è impossibile abituarsi è la paura”.
La realizzazione
“Dal punto di vista prettamente fotografico, avevo da subito fatto alcune prove di viraggi, di trattamento delle immagini per dare una tonalità un po’ 'polaroid', un po’ modernariato, anni ’70, perché non lo vedevo come puro reportage in bianco e nero”, racconta Luigi Ottani. “Poi, in realtà le elaborazioni tipo polaroid mi hanno portato in postproduzione a scattare delle vere e proprie polaroid. Perché? Seguendo questo ragionamento: la polaroid è per eccellenza la foto da scatto singolo, non riproponibile; è lo scatto unico, in cui uno decide sul momento senza poter tornare indietro e poter ristampare… purtroppo, come lo sparo di un cecchino”.
Il mirino che si vede nelle foto è stato aggiunto in postproduzione, ma se all’inizio Ottani pensava di centrarlo sul soggetto fotografato, in itinere ha aggiunto una variante: “Abbiamo trovato molto più interessante che a volte fosse spostato. Ad esempio, nel libro c’è una foto scatta da Jovan Divjak di una ragazza che sta camminando. Ho aggiunto volutamente il mirino lontano dalla ragazza, per dare l’idea che è stata risparmiata. Abbiamo provato a entrare nella psicologia di chi sta mirando e segue gli spostamenti della ragazza: sta aspettando la vittima in quel punto, per premere il grilletto oppure decide di lasciarla andare”.
In tempi in cui stampare un libro fotografico e con testi, oltre che su un tema così specifico, è sempre una scommessa, Ottani e Biagiarelli hanno trovato un grande entusiasmo in Bottega Errante Edizioni, marchio editoriale nato solo 5 anni fa. “Li abbiamo contatti a giugno e in soli 15 giorni abbiamo deciso di pubblicarlo! Con questo libro fotografico, il primo che pubblicano, viene inaugurata la ‘Collana Obiettivi’. È stata un’ottima collaborazione, ci siamo trovati subito e non solo per il loro profondo interesse ad autori dei Balcani occidentali.”
Una sfida editoriale che è stata raccolta anche da altri soggetti, racconta infine Roberta Biagiarelli: “Voglio ricordare il prezioso sostegno del Comune di Lucca e del Comune di Pesaro - che sono gemellati con Sarajevo – e l’Associazione Lettera 22 di Ivrea che si occupa di scambi sportivi con ragazzi dei Balcani. Grazie al previo accordo di acquisto copie, ci è stato possibile stamparne 3.000”.
“Ritengo molto importante”, aggiunge infine Biagiarelli, “il fatto che questo libro esca proprio adesso, a 25 anni dalla firma dell’accordo di pace di Dayton che ha decretato la fine della guerra in Bosnia Erzegovina e in vicinanza del 25esimo anniversario della vera fine dell’assedio di Sarajevo che ricade a marzo del prossimo anno".